Continuano le aggressioni e gli atti di violenza all’interno delle carceri. Nella casa circondariale di Massama a Oristano, mercoledì, un agente di polizia penitenziaria è stato brutalmente assalito da un detenuto che si era rifiutato di rientrare in cella: l’addetto alla sorveglianza del reparto ha riportato ferite guaribili in 15 giorni. Un altro caso si è registrato nell’istituto penale di Trapani, dove due carcerati hanno attaccato un sovrintendente che ha ricevuto un pugno sopra l’occhio. E alle Vallette di Torino, un detenuto di origine straniera l’altra notte ha dato fuoco a un materasso e si è barricato nella propria cella, impedendo, anche attraverso il lancio di oggetti, l’ingresso al personale intervenuto per mettere in salvo tutti gli occupanti delle altre celle e spegnere le fiamme che rischiavano di propagarsi nell’intera la sezione.
Aggressioni, minacce, rivolte, gesti di autolesionismo, tentativi di suicidio mettono ogni giorno sotto stress il personale che deve garantire l’ordine e la sicurezza nei 192 penitenziari italiani, quasi tutti alle prese con carenze di organici e con sovraffollamenti anche sopra il 100% della capienza. Secondo le organizzazioni sindacali degli operatori carcerari, ormai giunti al limite della sopportazione, la maggior parte degli autori di atti di violenza dietro le sbarre manifestano “un forte disagio psichico”, condizione assai diffusa per altro tra chi deve scontare una pena detentiva o è ristretto in un carcere in attesa di giudizio.
Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, nel 2022 il 40% dei reclusi, cioè circa 25mila sugli oltre 57mila del totale, è sottoposto a cure psichiatriche, soprattutto di tipo farmacologico. E il 30% di questi sono tossicodipendenti. Si tratta, però, evidentemente, solo della “cresta” di un fenomeno ben più largo. È impossibile, infatti, per gli psichiatri in servizio all’interno delle strutture carcerarie (e quasi sempre ce n’è uno solo), avere in ogni momento sotto controllo tutta la situazione, anche perché “le crisi” sono spesso imprevedibili e scoppiano all’improvviso. Ma quanti sono i detenuti che si possono definire effettivamente “malati di mente”, ovvero destinatari di una diagnosi che ne abbia accertato la patologia rendendo necessario il trasferimento in una delle 32 Rems (Residenze di esecuzione delle misure di sicurezza) istituite in Italia al posto degli ospedali psichiatrici giudiziari chiusi nel 2015? Nel 2020, è sempre Antigone che lo registra, i soggetti che avevano commesso un reato ma non erano imputabili in quanto affetti da un vizio di mente erano poco meno di 300, la metà di quelli che le residenze sanitarie per detenuti psichiatrici possono ospitare. Numeri risibili. Il rischio, se l’escalation di aggressioni non dovesse cessare è che le carceri si trasformino in “manicomi criminali”.
Ma c’è chi sostiene, come il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, che si tratta di un fenomeno, pur nella sua gravità, ciclico, che si presenta cioè con picchi alti all’inizio di ogni estate e che il problema va affrontato nella sua complessità, con una riforma dell’intero settore penitenziario. E di fronte a questa “nuova emergenza”, un appello, e un allarme, arrivano dalla Sardegna al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: i malati psichiatrici non devono stare nelle prigioni. Con una lunga lettera la Garante regionale delle persone private dalla libertà, Irene Testa, si rivolge al capo dello Stato «in quanto garante dei principi costituzionali, in particolare del rispetto della dignità umana che passa anche attraverso il diritto alla salute di tutti i cittadini, anche di quelli che hanno sbagliato».
«Non sarò il Garante di questo scempio della dignità umana, delle leggi e del diritto – prosegue Testa -, le Rems, le strutture che dovevano curare questi soggetti con patologie psichiatriche autori di reati non sono state create in numero sufficiente e il risultato è che oggi le carceri sono già diventate i nuovi manicomi».