Attualità

Il report. Rula, Sandra, Zhang: le altre 86 giornaliste che restano dietro le sbarre

Viviana Daloiso mercoledì 8 gennaio 2025

La luce sempre accesa, ma anche la musica, altissima, a ogni ora del giorno e della notte. La tazza d’acqua bollente come cena per dare un piccolo sollievo dal freddo, e poi ricominciare a usarlo come tortura il giorno dopo; le bottiglie di plastica per l’urina, visto che in bagno si va di tanto in tanto (per la doccia se va bene una volta al mese); le botte, per ogni cosa, per confessare reati mai commessi, per ripetere nomi di presunti complici. Non siamo nel carcere di Evin, a Teheran, dove Cecilia Sala è rimasta imprigionata per 20 giorni in condizioni che ci rifiutiamo di immaginare e che pure sono state descritte come drammatiche da chi vi è stato rinchiuso, ma a Izolyatsia, quello che prima della guerra era un centro culturale nel Donetsk e che i russi hanno trasformato in uno dei loro centri di detenzione illegale sparsi sul territorio ucraino conquistato. Con dentro, tra gli altri, decine di giornaliste. In uno di quei centri si trova ancora Anastasia Hlukhovska, del media online Ria-Melitopol, arrestata dalle forze di occupazione nella città sudorientale di Melitopol il 20 agosto del 2023 con l’accusa di “terrorismo”. La sua famiglia inizialmente non ha detto nulla sul suo arresto per motivi di sicurezza, ma l'editore alla fine ha deciso di lanciare l'allarme vista la mancanza di risposta da parte delle autorità russe riguardo al suo luogo di detenzione, che è tuttora sconosciuto. I territori ucraini occupati dalla Russia, d’altronde, sono zone senza legge per chi continua a raccontare il conflitto, spiegano da Reporters sans frontiers. Che di Anastasia continua a chiedere il rilascio, come di tutte le altre croniste detenute in Ucraina, in Russia e in Bielorussia: chi condannata, chi in attesa di giudizio, chi dimenticata, chi scomparsa.


I volti, spesso giovanissimi, compaiono nella sterminata lista stilata dalla Coalition for women in journalism, un’organizzazione che si occupa di tutelare le donne che scelgono di fare questo mestiere: con la nostra Cecilia fino a ieri erano 88 quelle che si trovavano ingiustamente dietro le sbarre (il numero è stato aggiornato a 86 oggi, 8 gennaio, dopo la liberazione della nostra cronista e un altro rilascio), ma sequestri e detenzioni raggiungono la cifra di 692 negli ultimi 5 anni. Significa che ogni due giorni e mezzo una giornalista è stata arrestata mentre stava facendo il suo lavoro. Nelle zone di guerra più facilmente, come l’Ucraina o il Medio Oriente, e questo forse è più comprensibile, seppur non accettabile. Ma anche per mano di governi non necessariamente annoverati come autoritari o illiberali, o là dove non si combatte alcuna guerra: è il caso clamoroso di Brandi Morin, una cronista nativa canadese specializzata nel racconto della vita e delle problematiche degli indigeni, autorevole firma di numerosi media internazionali (dal New York Times ad Al Jazeera English, dal Guardian alla Cbc) finita in cella per qualche giorno a gennaio scorso con l’accusa di “intralcio alla giustizia” per il semplice fatto di aver ripreso lo sgombero violento da parte delle forze di polizia di un accampamento di senzatetto a Edmonton, in Canada appunto.


Danno fastidio, le donne, perché da giornaliste spesso raccontano la situazione delle cosiddette “ minoranze” (prima fra tutte quella delle donne stesse), di chi cioè vede i propri diritti sistematicamente violati, calpestati, tenuti ai margini. Ed essere donne significa essere due volte bersaglio: all’arresto per aver svolto il proprio lavoro si accompagnano spesso atteggiamenti o insulti sessisti, abusi verbali e molestie, quando non addirittura violenze fisiche. L’obiettivo è il silenzio, non solo nel periodo di detenzione, ma anche dopo: si vuole scongiurare che si torni a scrivere o a documentare la realtà, una volta uscite, per la paura di altre violenze. Anche la maternità viene usata spesso come un’arma di ricatto: è la triste storia di Rula Hassanein per esempio, redattrice del Wattan Media Network con sede a Ramallah, arrestata dalle forze militari israeliane nella sua casa nel quartiere di Al-Ma’asra di Betlemme, in Cisgiordania, lo scorso marzo e condotta nel carcere di Damon, vicino ad Haifa. Rula è stata strappata dalle braccia della sua piccola di appena nove mesi di vita e dagli altri suoi due gemellini, di poco più grandi, che non vede da allora. Inutili le due sentenze del tribunale militare israeliano per il suo rilascio (una del 17 aprile e una del 2 luglio): la donna resta in carcere, accusata di “incitamento che danneggia la sicurezza dello Stato sui social network”, senza poter vedere i propri figli e nonostante la legge israeliana preveda che questo avvenga per le sue detenute. A Damon, tra le oltre 20 donne palestinesi che si trovano in condizioni più volte denunciate come degradanti dalle Ong, ci sono molte altre giornaliste.


In carcere ingiustamente dal 13 aprile scorso è anche la giornalista burundese Sandra Muhoza del media online La Nova Burundi, condannata appena prima di Natale a 21 mesi di prigionia con l’accusa di “attacco all’integrità del territorio nazionale” e “avversione razziale”: Sandra è stata arrestata dopo aver condiviso informazioni sensibili sulla distribuzione di armi da parte del governo tramite WhatsApp, in un gruppo privato di professionisti dei media. Il Paese sta vivendo un periodo di forte tensione politica, in vista delle elezioni legislative e comunali previste quest’anno e la condanna a Sandra Muhoza segue la prassi di punire le giornaliste scomode, come dimostrato dalla condanna di Floriane Irangabiye, nel 2023. Una storia che si ripete anche in altri Paesi africani, dalla Tunisia alla Nigeria, dove le croniste donne finiscono più facilmente nel mirino dei regimi.


Il 9 febbraio 2024 la polizia ha fatto irruzione all'alba nella casa del giornalista Selamet Turan a Sirnak, in Turchia: colpevole di parlare della situazione dei curdi nel Paese, è stata accusata (come accaduto a molte altre sue colleghe) di terrorismo. È ancora in cella. Così come in cella è già tornata, dopo 4 anni di detenzione e una liberazione finita su tutti i giornali del mondo lo scorso maggio, la giornalista cinese Zhang Zhan: era stata arrestata la prima volta nel 2020 per aver documentato con oltre 100 video poi diffusi sui social network le prime fasi di epidemia da Covid-19 nella città di Wuhan, quando Pechino considerava un reato diffondere notizie su quel che stava davvero accadendo nel Paese. Ci è rientrata per aver denunciato le violenze subite da alcuni attivisti nella provincia nord-occidentale del Gansu. La Cina è la più grande prigione al mondo per i giornalisti: sono almeno 121, tra donne e uomini, gli operatori dei media attualmente dietro le sbarre.