«Vogliamo che la potestà legislativa torni alle Regioni al fine di arrivare a una regolamentazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali che sia a misura d’uomo». Evoca un’implicazione di carattere antropologico Giorgio Ventura, presidente della Cicas, la "Confederazione imprenditori, commercianti, artigiani, turismo, servizi", organismo in sostanza che riunisce le micro e piccole imprese – il negozio sotto casa, per intenderci – presente in ben 75 province di tutte le regioni. Perché il tema delle aperture domenicali «non può essere confinato a una dimensione esclusivamente commerciale e quindi economica».Ma allora cosa vuol dire, concretamente, liberalizzare l’apertura dei negozi? «Per il commerciante italiano tipo, conduttore autonomo del proprio esercizio – riprende Ventura –, vuol dire dedicare tutto il tempo personale, di tutti i giorni della settimana. Vuol dire impegnare una ulteriore parte dei propri decrescenti introiti d’impresa nei sacrosanti compensi del personale, diretti e indiretti. Vuol dire, ancora, sacrificare ogni opportunità di relazione personale, familiare, sociale, culturale e religiosa al mito fasullo del "fine lavoro mai". Ma servisse a qualcosa – incalza il presidente della Cicas –! I dati che sono triste patrimonio comune, e che
Avvenire ha più volte pubblicato, parlano chiaro». Ne basta ricordare uno: 135mila negozi chiusi nel 2012. «Di certo – spiega Ventura – la pratica inaugurata dal governo Monti aumenta i vantaggi per la grande distribuzione organizzata, equivalente, per i centri storici delle normali cittadine italiane e per i normali commercianti italiani, alla grande distruzione, organizzata o meno». Intanto, il tema sta per arrivare in Parlamento e la Cicas, con altre organizzazioni di riferimento della piccola impresa, «non vogliono fare una operazione di retroguardia» ma far valere. tante ragioni, «non ultima una di natura morale, a cui la religione non è naturalmente estranea».Soluzioni? Per i negozi dei centri storici, si potrebbe pensare a «una turnazione diluita». Ma è una soluzione «di seconda istanza». Il pieno appoggio che la Cicas ha dato a "Libera la domenica", «la induce a chiedere il ritorno alle buone abitudini di pochi anni fa: nei feriali lavoro, nei festivi riposo, per sé, per la famiglia, per una società liberata dall’assillo del consumo dopato».Dell’argomento torna a occuparsi anche il Movimento cristiano lavoratori (Mcl) che, nel 2003, con la petizione
La domenica è festa mise insieme ben 386mila firme contro la «mercificazione di questo giorno e dei valori che rappresenta – spiega oggi il presidente Carlo Costalli –; valori che non possono essere sacrificati alle ragioni dell’economia e del profitto». Occorre invece restituire «il valore della domenica che è il giorno dedicato al Signore» ma anche «il giorno dedicato all’uomo, uno spazio in cui coltivare quelle relazioni umane e quelle dimensioni della vita che non ubbidiscono alle logiche del produrre e del consumare». Le 150mila firme raccolte nella campagna <+corsivo>Libera la domenica<+tondo> promossa da Confesercenti e Federstrade, «testimoniano quanto questo valore sia sentito dagli italiani», ha continuato Costalli. Da qui l’auspicio: «Possa, la domenica, tornare ad essere giorno dell’uomo, a vantaggio dell’intera società».