Reportage. Lampedusa e l'accoglienza, da candidata al Nobel a isola dimenticata
"Avvenire", il quotidiano francese "La Croix" e l’olandese "Nederlands Dagblad", uniti da rapporto di cooperazione giornalistica ispirata ai comuni valori cristiani, hanno deciso di tentare un bilancio del percorso dell’Europa nei 5 anni che sono trascorsi dal 2015, l’anno ricordato per la «crisi dei rifugiati». Con reportage, analisi e interviste i tre giornali intendono proporre ai rispettivi lettori un lavoro ispirato da una riflessione condivisa e dalla volontà di mostrare il bene che esiste nella società europea e i passi che restano da compiere nella costruzione di una casa comune aperta ai principi di solidarietà, responsabilità, accoglienza. Gli articoli realizzati dai giornalisti dei tre quotidiani, ideati insieme, vengono pubblicati sulle rispettive testate per offrire all’opinione pubblica di Italia, Francia e Olanda uno sguardo aperto a un orizzonte più vasto di lettura e comprensione dei fenomeni. Questo progetto in particolare prende spunto dall’anniversario di un anno che ha segnato il destino del nostro continente: nel 2015 oltre un milione di rifugiati e migranti raggiunsero le coste europee e durante il viaggio in migliaia persero la vita. La stragrande maggioranza partiva da Paesi dilaniati dai conflitti: la Siria, l’Afghanistan, l’Iraq. Una vicenda che costrinse l’Europa a porre al centro dell’agenda politica la questione dei rifugiati, dell’accoglienza e dei ricollocamenti. Una questione ancora drammaticamente aperta.
L’isola che non c’è più si è risvegliata dura e spigolosa come le sue scogliere. L’accoglienza come marchio di fabbrica e la solidarietà nell’anima sembrano un ricordo lontano, come i tempi dell’Orso d’Oro a Berlino per Fuocammare.
Sono passati quattro anni dal tempo in cui l’isola venne perfino candidata al Nobel per la Pace. Ma oggi Lampedusa brucia di fuoco e di rabbia. Le fiamme eversive di chi ha incenerito il cimitero dei barconi e simbolicamente chiuso con il cellophane la Porta d’Europa, il monumento dell’artista Mimmo Paladino a cui piedi Papa Francesco si è recato nel suo primo viaggio.
E il risentimento di quanti sull’isola si sentono abbandonati, lasciati alla deriva dalle istituzioni centrali che non sono mai riuscite a realizzare neanche un piccolo ospedale, ma solo un piccolo poliambulatorio nel quale sentirsi dire che per le visite specialistiche bisogna prendere un aereo o una nave per la Sicilia.
Eppure Lampedusa è anche l’avamposto dell’ecumenismo della solidarietà. Fianco a fianco lavorano i parrocchiani e don Carmelo La Magra con i volontari di Med Hope, il programma per rifugiati e migranti della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia. Un progetto nato «all’indomani della tragedia del 3 ottobre 2013, quando a poche miglia dall’isola di morirono 368 persone in un terribile naufragio», spiegano gli operatori. Insieme al Forum Lampedusa Solidale, sono stati accreditati dal ministero dell’Interno per assistere gli sbarchi in presenza delle forze dell’ordine. Da quasi 7 anni sono loro il servizio di prima assistenza a chi approda al Molo Favaloro: una bevanda calda, qualcosa da mangiare, coperte, finalmente un sorriso e qualche informazione per cominciare a orientarsi.
Da qualche anno però il veleno della contrapposizione ha preso casa anche qui, dove generazioni di pescatori siciliani fino agli anni ’70 emigravano verso la Tunisia a cercare lavoro. Non tutti hanno rimosso dalla memoria l’epoca dell’accoglienza ricevuta nell’Africa del Nord. Ancora oggi a Tunisi un intero quartiere è chiamato "Petite Sicilie".
Si prospetta un periodo difficile per la fragile economia dell’isola. Don Carmelo, il giovane parroco che molti amano, tanti rispettano e qualcuno mal sopporta per quella sua capacità di non girare intorno alle parole, sa che il propellente dell’odio è la paura. Non dello straniero. «In tanti temono un calo drastico di turisti ed è comprensibile la preoccupazione di una comunità già alle prese con tanti problemi, come ad esempio quello dell’assistenza sanitaria. Lo dico sempre: i poveri di Lampedusa sono le persone malate. Ma guai a legare tali problematiche alla questione migratoria».
Giovanni D’Ambrosio è uno degli operatori di Med Hope. Tiene un diario che sembra quello di un guardiano del faro. «La frustrazione – scrive – non deve diventare violenza, la rabbia deve essere incanalata in indignazione per i diritti negati, di tutti e non solo di alcuni». Paola, volontaria vicina alla parrocchia, fa perfino da accompagnatrice al cimitero. Ci sono tombe senza nome, ed altre per cui è stata data un’identità. Paola dice che «si parla sempre di migranti ma loro, i migranti, non parlano quasi mai. Le loro voci non si sentono. Siamo sempre noi a parlare di loro. Rimangono numeri, non conosciamo le loro storie, in qualche modo viene negata loro l’umanità che al contrario ci accomuna». Perciò lei prova a raccontare almeno la vita dei morti.
Sul viale pedonale che si sporge sulla baia, negozi, bar e ristoranti sono mezzi vuoti. Non fosse per lo spiegamento di militari, poliziotti, uomini di Frontex e qualche agente segreto dall’accento americano e la camicia da vacanziero, le saracinesche sarebbero tutte abbassate. Per comprare qualche libro bisogna entrare nella bottega di un fotografo. Espone pochi titoli ma ben scelti, in attesa di compratori occasionali. Un’oasi in questo pezzo d’Europa dove fino al 2012 non c’era neanche una biblioteca pubblica, ancora una volta realizzata grazie alla spinta del volontariato.
Gli sbarchi la gente del posto quasi non li conta più. Quando l’ex ministro Matteo Salvini assicurava che in Italia i porti erano chiusi e che nessun migrante giungeva nella Penisola, a Lampedusa ogni giorno arrivava una barchetta. Qualche volta con 10, altre volte con 30 persone. Ogni giorno e ogni notte. È così che qualcuno si è abituato alla finzione, alla menzogna dei politici che come prestigiatori nascondevano i problemi dietro un sipario nero.
Il poliziotto che da anni torna sull’isola per dare il cambio ai colleghi che se ne ritornano "sul continente" ha visto Lampedusa cambiare, «ma non per colpa dei lampedusani – assicura –. Prima quando arrivavano i barconi, all’indomani leggevamo la notizia sul giornale. Adesso l’ordine è quello di "non creare allarme sociale". Lo chiamano così, ma è solo il modo per nascondere la realtà». Perché se non fosse così, «allora mi devono spiegare – si domanda – per quale motivo ci sono più militari a Lampedusa che nel resto d’Italia».
Un silenzio che spegne i diritti degli ultimi e le speranze degli isolani, costringendo Lampedusa a dover scegliere se voltare le spalle al Mediterraneo, oppure scommettere ancora sulla propria identità.
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