Livatino. L'amico: toccò il sistema nervoso di Cosa nostra
il corpo del giudice Rosario Livatino coperto da un lenzuolo
«Rosario non si fermava al minimo sindacale del pubblico ministero, ma scavava. Era una mente pensante, e sapeva dove mettere le mani. Ma nelle indagini metteva un supplemento d’anima, che era la carità cristiana». È la doppia lettura che di Livatino fa Luigi D’Angelo, ex presidente del Tribunale di Agrigento e amico del magistrato ucciso. Si conobbero nel 1978 e «tra noi si creò un ottimo rapporto».
E una stretta collaborazione in inchieste innovative. «Fu tra i primi ad applicare la norma sul sequestro dei beni ai mafiosi. E senza curarsi dei pericoli. Siccome i vertici mafiosi allora erano di Canicattì, il paese dove viveva coi genitori, andava a toccare ambienti che gli erano vicini». E addirittura il primo sequestro in Italia di un edificio ultimato senza licenza viene richiesto da Livatino e D’Angelo lo firma. Ma Livatino andò oltre e «fece una circolare ai pretori per dire che per operare il sequestro di un edificio abusivo non bisognava aspettare la fine del processo ma andava fatto subito». Era davvero un passo avanti e così, ricorda il collega e amico, «andava a toccare il sistema nervoso che determinava l’arricchimento della mafia. Anticipò addirittura il voto di scambio che allora non era reato». Inoltre si accorse che «nelle indagini c’era una frammentazione che impediva la visuale complessiva di questi fenomeni. Rosario da 'sbarbatello' sostituto procuratore, riuscì a costituire, ben prima di altri, un coordinamento delle forze inquirenti, anticipando in questo anche Falcone».
Non inchieste secondarie, altro che 'giudice ragazzino' come lo definì l’allora Capo dello Stato, Francesco Cossiga. «Nel corso di un’indagine trovò una fattura falsa. Allora era solo un reato contravvenzionale. Invece si chiese chi era la persona che l’aveva fatta e perché. Era un imprenditore in odore di mafia e Rosario salendo la scala gerarchica arrivò ai fondi neri e all’accordo spartitorio tra mafia, imprenditoria e politica». Grande capacità come per uno dei processi nati nell’ambito della guerra tra le due fazioni di cosa nostra che provocò ad Agrigento 300 morti in tre anni.
«Rosario comincia ad indagare, va in Questura a rispolverare alcuni fascicoli dove c’era la prima intercettazione ambientale fatta in un bar di Montreal dove i vertici di cosa nostra siciliana e statunitense erano riuniti per stabilire gli assetti. Era arrivata dalla polizia canadese ma era stata archiviata. Rosario la ritirò fuori e da lì cominciò un processo nel quale emersero nomi molto importanti. Era molto attento, non voleva correre ma acquisire elementi solidissimi. Ma a un certo punto l’indagine gli venne sollevata. Ne ha sicuramente un dispiacere, ma ho il dubbio che abbia potuto assecondare la richiesta del procuratore perché lui scrive nella sua agenda 'vedo nero nel mio futuro che Dio mi perdoni. Qualcosa si è spezzato, Dio avrà pietà di me e la via mi mostrerà'. Quasi certamente i capifamiglia canicattinesi minacciano Rosario, che capisce che se si fa scortare, la minaccia può essere attuata trasversalmente sui genitori che per lui sono due figure sacre. Allora accetta di essere sollevato dall’inchiesta, però quando riprende a lavorare si adopera perché i suoi genitori possano essere tenuti lontani da lui. E come? Accettando personalmente su di sé la via del martirio. 'Io mi offro, mi protegga Dio, i miei genitori lasciateli stare, se dovete uccidere, uccidete me'». In questa vicenda emerge il suo rapporto coi genitori. «Figlio unico, fu accudito e amato, e lui ricambiò sempre questo amore sconfinato. Fu guidato dalla madre ad un’educazione rigorosa, al senso di responsabilità e soprattutto agli ideali del cristianesimo. Ricordo che in preparazione della Cresima, da adulto mentre già lavorava in Tribunale, andò dal sacerdote e si fece dare una serie di libri perché voleva studiare bene». Da qui nascono le sue profonde motivazioni. «Sceglie una sede vicina ai suoi genitori ma soprattutto perché sente il bisogno di soccorrere la società in cui viveva».
Per D’Angelo, Livatino «è la testimonianza vera del bene. Saldava giustizia e carità che è amore di Dio che si deve manifestare attraverso il prossimo.». E lo faceva «senza cercare un pulpito e una platea. Rosario non ha mai dato un’intervista, non aveva assolutamente alcuna compromissione con la politica e con nessuna forma del potere. L’opinione pubblica lo ha scoperto solo quando è morto. Di Rosario c’è solo una foto perché lui rifiutava sempre di farsi fotografare». Riservato ma pericoloso per la mafia. «Perché le indagini stavano arrivando al Banco di Girgenti, commissariato dopo un’ispezione della Banca d’Italia ed era finito in mano agli imprenditori agrigentini, diventando la cassaforte della mafia.
Rosario paga per quello che aveva fatto e per quello che temevano facesse. Doveva essere un’azione esemplificativa e per questo viene fatta nel tragitto per il tribunale. 'Ti uccidiamo per il tuo lavoro'». Di quel terribile giorno il magistrato si porta dietro una drammatica immagine. «Rosario era piccolo, con un viso da ragazzo. Sembrava un uccellino sotto quel lenzuolo in mezzo alla campagna. Quel percorso tracciato dal suo sangue... ». Ma poi torna subito a chi era il suo amico Rosario. «La fede non la dimostrava con le parole, come i farisei, ma con le opere e la sua spiritualità. Ha deciso di seguire la strada di Cristo nel martirio. Se non fanno santo lui...».