Attualità

Il caso. I sogni di Giulia, le scuse di Impagnatiello, l'odio da superare

Viviana Daloiso giovedì 18 gennaio 2024

Alessandro Impagnatiello in aula nel Tribunale di Milano e, a destra, Giulia Tramontano in una foto scattata durante una vacanza quando era già incinta

Sono due voci tra le altre (quelle dei cronisti accalcati, dei familiari e di tanti curiosi) a far più rumore nell’aula del tribunale di Milano dove è andata in scena la prima udienza del processo per il terribile femminicidio di Senago. La prima è di Giulia Tramontano, la vittima, registrata in un vocale su WhatsApp inviato a un’amica appena prima di far rientro in casa quella sera e ammesso fra le prove: «Ora basta, voglio rifarmi una vita da sola col mio bambino», le sue parole piene di rabbia e di dolore, perché Giulia aveva appena incontrato la donna con cui il suo fidanzato la tradiva, aveva scoperto tutte le sue bugie. E al settimo mese di gravidanza, col suo pancione e i suoi sogni spezzati, era terribilmente sola.


La seconda è la voce di lui, di Alessandro Impagnatiello, il killer di Giulia e del figlio (suo) che portava in grembo, l’uomo senza pietà del topicida somministrato per mesi e delle finzioni e del corpo della ragazza bruciato, trascinato, buttato dietro a un garage come spazzatura. Al processo ha voluto prendere la parola: «Sto chiedendo scusa, ma non sarà mai abbastanza», inizia, cercando con lo sguardo tra la folla anche i genitori di Giulia, piangendo, tremando. «Sono stato preso da qualcosa che risulterà sempre inspiegabile e da disumanità. Ero sconvolto e perso. Quel giorno ho distrutto il bambino che ero pronto ad accogliere. Quel giorno anche io me ne sono andato, sono qui a parlare ma non vivo più». Sono parole e macigni insieme. Si è dunque davvero reso conto, il giovane barman che così scrupolosamente aveva premeditato l’omicidio della sua fidanzata, di quello che ha fatto? Secondo i suoi difensori, sì: «Le scuse sono partite da lui. Non sa spiegare quello che è accaduto, si sente molto male». Secondo la famiglia di Giulia – padre e sorella sono usciti dall’aula quando l’uomo ha cominciato a parlare –, no, di una presa in giro si tratta e d’un tentativo di trovare attenuanti nel percorso processuale: «Puoi chiedere scusa se per errore hai urtato lo specchietto della mia auto. Non puoi chiedere scusa se hai avvelenato mia sorella e mio nipote. Meriti di svegliarti ogni giorno in galera».

Ecco le due sponde che sembrano non potersi incontrare mai, affacciate sull’abisso dell’orrore e della violenza più efferati: il lupo e l’agnello, l’assassino e la vittima (o i parenti della vittima), il torto e la ragione. È la ferita dell’odio scavata nelle nostre vite e nelle nostre società, da cui nascono trincee, vendette e spesso nuovo orrore, nuove violenze. Il ponte da costruire in mezzo è sempre lo stesso, per un femminicidio come per un bombardamento: il perdono. «Un diritto per ogni uomo che lo chiede», come ha spiegato Papa Francesco, ancorato all’insegnamento di Gesù, ma che può risultare impresa quasi impossibile per chi s’è visto strappare una persona che amava in un modo così brutale.

Occorre comunque tentarla, sempre, questa strada. Serve la forza d’uscire dalle proprie trincee e provare a costruirli, i ponti, anche nel dolore più grande, perché il dolore si scongeli e si ritrasformi in qualcosa di vivo, in qualcosa di buono e di utile per chi resta. Passi del tempo, sconti la pena che merita Alessandro Impagnatiello e che i giudici decideranno per lui, ma possiamo e dobbiamo speriamo che arrivi il coraggio del perdono. Perché la fine di Giulia e di Thiago non sia soltanto odio.