Attualità

Catania. La vita dopo l'orrore: calcio, rugby e amici

Antonio Maria MIra giovedì 4 ottobre 2018

J.viene dal Bangladesh, D. viene dal Mali, U. viene dalla Costa d’Avorio. Sono minorenni, e per questo non facciamo i loro nomi, e pur provenendo da Paesi così diversi hanno qualcosa in comune, qualcosa di terribile. Tutti e tre sono stati torturati in Libia, per estorcere soldi alle famiglie, un riscatto in cambio della libertà. In questo Paese che per il ministro Salvini è «un porto sicuro».

Li abbiamo incontrati nel Centro di accoglienza temporanea del Centro Astalli di Catania, ospitato in una casa confiscata alla mafia nel quartiere di Librino. Ieri, in occasione della Giornata della memoria e dell’accoglienza, hanno partecipato all’affissione di una targa ricordo e alla posa di un albero nell’area degli orti sociali nel quartiere di Librino. Un bellissimo esempio di partecipazione dal basso, di collaborazione in un quartiere difficilissimo. Nato a maggio su iniziativa di Musicainsieme e di Talita Kum, opera diocesana per bambini, bellissime realtà del quartiere, da agosto ospita anche l’orto degli immigrati che i ragazzi, accompagnati dal mediatore culturale Lucien, tutti i giorni curano con passione. Anche per provare a dimenticare quello che hanno subito. J. è bengalese e ha 16 anni.

È figlio di un giornalista, leader politico di opposizione, perseguitato, vittima di tre attentati. Per questo la famiglia ha deciso di farlo fuggire per salvarlo. Nel 2016 riescono a farlo arrivare in aereo in Sudan. Ha appena 14 anni. Lì per due mesi è ospite nella casa di un bengalese che però lo vende a una famiglia libica. Finisce in prigione, subisce violenze finchè la sua famiglia paga una riscatto. Ma una volta uscito di prigione viene nuovamente catturato.

Ancora carcere, altra richiesta di soldi. Ma il ragazzo riesce a fuggire, si imbarca e il 13 giugno arriva in Italia. Oggi sorride facendoci vedere i suoi disegni: Topolino e i ritratti degli amici, italiani e immigrati. Non meno drammatica la storia di D., 17 anni, del Mali. Il papà militare muore in un attacco terroristico. Non ha più notizie della mamma e della sorella, forse uccise. Lui ha solo 14 anni. Fugge in Algeria dove resta 10 mesi. Lavora ma non lo pagano. Si sposta in Libia dove rimane 1 anno e 5 mesi. Viene portato in carcere e picchiato per avere il riscatto. Ne porta ancora i segni addosso.

Ma non ha più nessuno che possa pagare. Così resta in carcere. Un giorno uno dei carcerieri comincia a sparare e molti detenuti riescono a scappare. Anche D. che riesce a imbarcarsi. Arriva in Italia a giugno, e ora è tra i più attivi nell’orto. Come U., 17 anni della Costa d’Avorio. Nel 2011 muore il padre. Gli zii si prendono la sua terra e uccidono la mamma. Lui scappa. Dopo un viaggio di 10 giorni arriva in Algeria. Viene arrestato e tenuto in carcere per tre giorni. Una volta liberato passa in Libia. Si nasconde e poi si sposta a Tripoli dove lavora come meccanico.

Ma anche lui è catturato e torturato. Gli danno da mangiare solo pane e datteri. Non può pagare il riscatto, nessuno lo può aiutare. Un arabo lo prende e lo porta a lavorare, ma senza pagarlo. Come uno schiavo. U. si ammala e allora il 'padrone' se ne libera portandolo su un barcone. Anche lui arriva in Italia a giugno. Come gran parte dei 10 ragazzi attualmente ospitati, sta attendendo da cinque mesi una risposta alla domanda d’asilo che per storie come queste dovrebbe essere quasi immediata. Eppure due di loro aspettano da 9 e 10 mesi. Ma per fortuna non stanno con le mani in mano, come spiega la responsabile Emanuela Consoli. «Vanno tutti a scuola, anche se restano pochi mesi. Due stanno prendendo la licenza media».

Fanno ulteriori lezioni di italiano e partecipano a varie attività. In collaborazione con Terre des hommes per interventi psicosociali, una volta a settimana scuola calcio col Coni e sempre pallone col centro di aggregazione Villa Fazio mentre alcuni di loro sono stati selezionati dalla squadra di rugby I Briganti, che opera con successo a Librino. Ma gli si chiede anche di collaborare. A turno puliscono la camera, la sala comune e buttano i rifiuti. «L’obiettivo è renderli autonomi». E sono contenti. Ormai nel centro ne sono passati più di 200, «quasi tutti tornano a trovarci e dormono da noi. Oppure mi mandano messaggi 'mamma come stai?'».