La Giornata. Roia: «Il Codice Rosso funziona, ora si trattino gli uomini violenti»
Fabio Roia
Più sole. Più maltrattate. E più impaurite. Il lockdown ha abbassato la curva dei contagi da Covid in Italia, ma ha sollevato come mai prima quella della violenza sulle donne. Tutti i dati snocciolati in occasione della Giornata internazionale che si celebra oggi lo confermano in maniera drammatica: femminicidi in aumento (a fronte del calo di tutti gli altri reati), abusi e violenze ad ogni livello, un crollo delle denunce destinato a scavare un nuovo abisso nel percorso di consapevolezza che si era costruito con difficoltà ed enormi sforzi negli ultimi anni.
Le donne, ancora una volta, pagano un prezzo altissimo alla disparità di genere. Un’«emergenza pubblica», come l’ha definita il capo dello Stato Mattarella, che necessità più che mai di interventi. Niente vaccini all’orizzonte, però, niente cure miracolose: unica risorsa, al momento, lo strumento messo in campo un anno fa e chiamato Codice Rosso. Attraverso cui, sulla carta, le cose sarebbero dovute cambiare: corsie preferenziali per le denunce e per le indagini, inserimento di nuovi reati, l’obbligo di percorsi di rieducazione per i condannati. «E qualcosa è effettivamente cambiato » spiega Fabio Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano dallo scorso agosto (a primavera è finito in terapia subintensiva al Sacco causa Covid), da sempre in prima linea – come capo della sezione misure di prevenzione e coordinatore del settore penale poi – sul fronte dei reati contro le donne. Un punto di riferimento giuridico imprescindibile delle battaglie compiute nell’ultimo decennio sul fronte delle violenze di genere.
Proviamo a fare un bilancio della situazione, in occasione di questo 25 novembre. A che punto siamo con quel Codice Rosso che, sulla carta, avrebbe dovuto costituire una rivoluzione dal punto di vista giuridico per le donne vittime di violenza?
La legge funziona, è indubbio. Come magistrati misuriamo nei fatti un superamento della stagnazione delle denunce negli uffici di polizia e nelle procure. Se queste denunce, per altro, sono complete e raccolte in maniera corretta, non è necessario sentire nuovamente le vittime, un fatto che le mette al riparo da ennesimi traumi: si procede alle indagini e alla trattazione dei casi in maniera spedita e si giunge a provvedimenti. C’è poi un secondo aspetto, a mio avviso dirompente: la legge ha introdotto l’obbligo del trattamento degli uomini violenti. In sostanza, per chi è condannato e in detenzione per maltrattamenti, atti persecutori o violenza sessuale la richiesta della sospensione della pena può essere accolta soltanto a condizione di un percorso trattamentale. Chiaramente c’è una difficoltà applicativa insita in questa ingiunzione, perché i servizi territoriali in molti casi non erano preparati dal punto di vista delle strutture e delle professionalità a questo tipo di percorsi: qui non si tratta di dare farmaci agli uomini violenti, o psicanalizzarli, ma di accompagnarli in un percorso di rieducazione culturale e relazionale che faccia loro capire la gravità di quello che hanno commesso. La buona notizia è che dove questi servizi funzionano – è il caso proprio di Milano per esempio, col Cipm del dottor Paolo Giulini – abbiamo osservato un’assenza di recidiva nell’80% dei casi trattati. Dovremo osservare la conferma di questi risultati nel lungo periodo, ovviamente, ma abbiamo trovato uno strumento di prevenzione primaria e di tutela delle donne che non avevamo prima.
Poi è arrivato il lockdown, però...
Sì, e la situazione è precipitata per molti versi. Le donne già vittime di violenza si sono trovate chiuse in casa coi propri aguzzini, controllate ossessivamente e ancor più terrorizzate. Il risultato lo ha misurato bene uno studio condotto dal Csm, che ha inviato questionari a tutte le procure: abbiamo assistito a un crollo delle denunce del 50% su scala nazionale (a Milano addirittura del 70%). Di contro, e va sottolineato, sono aumentate del 60% le segnalazioni al numero verde dedicato antiviolenza, l’1522. Le donne che chiamavano sono poi state ricontattate e sentite tramite il web, con colloqui da remoto: abbiamo scoperto che questa modalità, seppur all’apparenza penalizzante per gli inquirenti, per le vittime è invece in qualche modo più facile da gestire. Si sentono protette, tutelate, meno esposte al giudizio che spesso frena il percorso della denuncia al punto da renderlo fallimentare. È una risorsa che dovremo tener presente anche in era post-Covid.
Cosa fare ancora, cosa manca per arginare questa emergenza che di anno in anno si fa più drammatica?
Insistere sulla formazione. Degli operatori, della polizia giudiziaria, dei magistrati, dei servizi territoriali, persino del personale dei Centri antiviolenza, così fondamentali nell’accogliere e proteggere le vittime. Ma dobbiamo anche ricordare che il problema della violenza di genere non si risolve nelle aule di giustizia: la nostra società deve superare i rigurgiti di sessismo che ancora troppo spesso vediamo esplodere e che denotano come la questione sia soprattutto culturale. Penso agli ultimi fatti di cronaca, come il caso Genovese: una giovane vittima è finita nuovamente nel tritacarne mediatico, attaccata e giudicata come se la colpa dello stupro subito fosse sua. Se facciamo passare questo messaggio, diciamo alle donne che non devono denunciare, che rischiano d’essere messe alla gogna se lo fanno. E questo è inaccettabile.