Editoriale. Il tempo che ci aspetta. La transizione come un esodo
Cambiamento climatico; migrazioni e interdipendenza planetaria; guerra e costruzione di un nuovo ordine globale: tre grandi questioni che ci interpellano, tre grandi temi che dobbiamo affrontare spingendo avanti una transizione tanto necessaria quanto difficile.
Gli obiettivi sono delineati: invertire la curva dell’innalzamento della temperatura per fermare il cambiamento climatico; governare la demografia e riequilibrare le enormi disuguaglianze e le tante ingiustizie presenti nel mondo; superare i conflitti riconoscendo ciò che ci unisce più che ciò che ci divide. Ma dire questo non basta. È il percorso a essere incerto. E soprattutto a richiedere tempo. La nostra cultura è centrata sul breve periodo: i politici pensano alle prossime elezioni, i manager alla trimestrale, tutti alle prossime vacanze. La cultura contemporanea ci abitua a cercare risposte semplici e immediate. Nella convinzione radicata che c’è sempre una soluzione “tecnica” per risolvere qualsiasi problema. Così continuiamo a parlare di sostenibilità, di accoglienza, di pace. Si fa tanto. Ma in modo disordinato e contraddittorio. Ci servirebbe uno slancio nuovo per permetterci di fare un salto in avanti, per inaugurare un nuovo modello di sviluppo. Non è un paradosso il fatto che nella società in cui siamo tutti liberi, è così difficile cambiare le cose?
Una ragione va cercata nel fatto che le crisi che dobbiamo affrontare sono caotiche e contraddistinte da un andamento cronico e irregolare. Alla fine ci si abitua a tutto e la capacità di reazione viene meno. Come capita di questi tempi con i barconi che affondano nel Mediterraneo ridotti a notizia tra le tante. Le nostre società sono imprigionate nella stessa trappola che blocca i fumatori o gli alcolisti: un bicchiere di birra non mi ucciderà; un secondo può andare bene; beh, già due, perché non tre? Lo ha scritto con la sua tipica sagacia lo scrittore Jonathan Franzen: «La maggior parte delle persone sensibili rimane legata all’idea che di fronte alla scelta tra un’allarmante astrazione (morte) e la rassicurante evidenza dei miei sensi (colazione!), la mia mente preferisce concentrarsi su quest’ultima». La sproporzione tra le questioni da affrontare e la vita di ciascuno indebolisce il senso morale: «Non sono certo io responsabile di quello che accade. Né sono io che posso risolverlo». Così giriamo la testa dall’altra parte, diventando indifferenti a tutto.
Come l’esperienza ci insegna, è molto difficile smettere di bere o fumare. E non di rado ci si arriva solo dopo aver toccato il fondo. Ora la domanda che dobbiamo farci è: con tutta l’intelligenza e la creatività di cui dispone l’umano vivente può sfuggire a questo destino? La risposta è (e deve essere) decisamente sì: l’umano vivente ce la farà. Ma quale scotto dovremo pagare per acquisire l’apprendimento che ci serve?
Prendiamo il cambiamento climatico. Oggi la consapevolezza è molto più diffusa. Ma come agire per introdurre i cambiamenti che ci servono? E come distribuire i costi della transizione economica tra ricchi e poveri, tra Paesi avanzati e arretrati?
La stessa cosa per la pace. Tanti, troppi politici continuano a ragionare come se fossimo nel secolo scorso: ma possiamo realisticamente pensare che, in un mondo diventato piccolo e integrato, la guerra sia lo strumento per dirimere le controversie? È possibile imparare a pensare la sovranità territoriale in relazione – invece che in contrapposizione – a ciò che sta al di là della frontiera?
E infine le migrazioni. Un fenomeno di portata “biblica”, sintomo e specchio degli enormi squilibri che sconquassano il mondo e che spingono decine di milioni di persone a cercare fortuna in una terra straniera: è chiaro che non si può accogliere tutti. Ma muri e respingimenti non sono una soluzione. Quali interventi e quali risorse vogliamo dunque destinare per accompagnare seriamente i Paesi di partenza a risolvere i loro problemi?
«Risposta non c’è», cantava Bob Dylan. O forse sì, la risposta c’è. Solo che va cercata e costruita. Con pazienza e tenacia. È questo il significato più vero della parola “transizione”: un esodo, nel segno di una terra promessa che sappiamo non vedremo, ma che rappresenta la stella di riferimento comune per fare un passo dopo l’altro nella direzione auspicata.
Di questa politica abbiamo bisogno: capace di visione e autorevolezza per guidare il cammino che insieme poi dobbiamo fare. La storia non si ferma. Cammina sempre. L’unica possibilità che abbiamo è attraversare con intelligenza e coraggio quello spazio disponibile del tempo che ci aspetta.