Attualità

La storia. «Dopo i Casalesi, no anche alle ’ndrine»

Antonio Maria Mira sabato 31 gennaio 2015
«I calabresi? Sono venuti anche da noi, ci hanno provato. Ma abbiamo subito capito. Diciamo che abbiamo un certo sesto senso. Li guardiamo in faccia e li riconosciamo. E poi quando qualcuno mi dice che i soldi non sono un problema io mi insospettisco...». Già, Francesco Piccolo assieme al suo amico e socio Raffaele Cantile conosce bene le pressioni e gli affari dei clan. Giovani imprenditori edili campani, da quasi quindici anni lavorano nel modenese, da cinque vivono sotto scorta per aver denunciato gli estorsori che venivano proprio dal loro paese, Casapesenna nel Casertano, “patria” del boss dei “casalesi” Michele Zagaria che in Emilia ha fatto ricchi affari, anche insieme alla ’ndrangheta. I primi imprenditori ad aver “osato” denunciare il boss. Una scelta netta, che ha portato a durissime condanne, da 8 a 20 anni, anche in appello, compreso Zagaria.Anche loro hanno lavorato per la ricostruzione post terremoto, realizzando 5 scuole, «tutte terminate entro i 60 giorni previsti», ricorda Piccolo con orgoglio. E ora con la loro società “Pica costruzioni” (Pica sta per Piccolo e Cantile) stanno lavorando sia a Mirandola, per la scuola di musica, che a Milano dove stanno restaurano lo stadio di San Siro. Ma proprio in Emilia non sono mancate difficoltà. «In alcuni comuni emiliani sono stati arrestati i responsabili degli uffici tecnici, proprio quelli che ci avevano tenuto fuori dagli appalti. Eravamo sospetti in quanto campani... Ora si vede che non eravamo noi ad essere etichettati ma loro... Ogni famiglia mafiosa ha messo un tecnico di fiducia in un comune». L’imprenditore non si stupisce. «Qui hanno sempre fatto finta di nulla. Ma anche in Emilia c’è chi accetta di far parte del sistema mafioso, perché conviene. I soldi piacciono a tutti...». E poi, denuncia, «con la disperazione della crisi, soprattutto nell’edilizia, quando gli uomini dei clan si offrono di entrare in società con tanti soldi è difficile resistere. Sono bravi, non sono delinquenti». Anche perché, accusa, «le banche hanno messo tante imprese edili in sofferenza e questo ha favorito i mafiosi».Ovviamente Piccolo è soddisfatto dell’operazione che ha colpito duramente gli interessi della ’ndrangheta ma avverte: «È stato scoperto solo un quarto di quello che c’è. Ricordiamo che nelle regioni di origine usano la violenza, qui usano la penna, e sono molto meno visibili». Oggi ha letto del mega sequestro di camorra a Padova e un po’ si preoccupa. «Stiamo realizzando una scuola proprio in quella città. Vuol dire che dovremo stare attenti anche lì». Cosa che altri imprenditori non hanno fatto. «Alcuni di quelli arrestati li conosco bene. E un po’ mi sono stupito. Li reputo soprattutto vittime di un sistema di appalti che controlla dall’alto mentre andrebbe controllato dal basso. Mica sono scemi i mafiosi. Per entrare negli appalti usano cottimisti e fornitori che risultano sempre puliti. Noi comunque – è il consiglio – non ci fidiamo mai e controlliamo anche gli operai che assumiamo». E comunque, sottolinea l’imprenditore, «ormai sanno chi siamo, parliamo la loro stessa lingua e stanno lontani. Ma siamo mosche bianche». Ora dopo i tantissimi arresti Piccolo si prende una soddisfazione. «Quando abbiamo denunciato dicevano “è roba tra di voi”. Adesso che dicono? Perché lo avevamo fatto? Non eravamo dei pazzi visionari». Poi però, aggiunge, «speriamo che non aumenti la diffidenza verso i meridionali».Ma l’operazione Aemilia potrebbe essere occasione anche per riflettere sul sistema degli appalti, soprattutto per la ricostruzione dopo un terremoto. «Perché si arriva sempre dopo? Perché si opera sempre in emergenza. Quando c’è fretta non si guarda in faccia ai fornitori, si sceglie chi conviene e ci si limita ai controlli di routine. Ma dietro l’emergenza e la fretta è facile nascondersi. Soprattutto per “loro” che sono bravissimi a farlo. E poi spesso più che persone e imprese a girare sono i soldi. E questi chi li controlla?».Dall’Emilia i due imprenditori continuano ad osservare cosa succede nel loro paese, dove ogni tanti ritornano. «È un po’ cambiato. Tanti imprenditori dopo l’arresto di Michele Zagaria sono corsi a denunciare ma quello che raccontano sono verità contorte. Anche loro sono stati vittime ma accettando il sistema hanno alimentato la paura». Loro non hanno avuto paura e non cambiano idea. «Ne valeva la pena. Denunciando abbiamo riacquistato la nostra vera libertà di uomini e imprenditori». Talmente convinti che, sorride Piccolo, «pensiamo di mettere davanti ai cantieri un cartello con la scritta "Pica by Fai", Federazione antiracket italiana, tanto per farci capire subito».