Accoglienza. Il lungo viaggio di Shuvo, che ora si sente italiano
Dal Bangladesh a Monza, Shuvo è riuscito a trovare la sua strada.
Shuvo ora va veloce. Velocissimo. È andato a scuola, ha imparato l’italiano, ha fatto amicizia con altri ragazzi stranieri, ha partecipato alle iniziative di Caritas e Acli («Distribuivo vestiti e cibo a chi aveva bisogno») ha fatto un corso per diventare panettiere. Soprattutto, ha fatto cambiare idea alla commissione territoriale che, solo un anno e mezzo fa, aveva bocciato la sua richiesta di protezione umanitaria. «Mi ha aiutato tantissimo la mia insegnante – racconta Shuvo, che per lo Stato italiano è Mdsamsul Islam –. Mi ha dato fiducia, mi ha permesso di fare ripetizioni anche alla sera. Dopo aver ascoltato me, la commissione ha voluto sentire anche lei e so che il suo parere è stato decisivo». Per sbloccare un percorso che altrimenti si sarebbe interrotto bruscamente. Invece Shuvo ha voglia di guardare avanti, di uscire dal piccolo incubo da cui proviene e che in questi mesi italiani ha dimostrato di poter affrontare e superare brillantemente.
L’Oasi San Gerardo di Monza, in cui ci troviamo, gli ha aperto le porte sull’Italia «e il mio sogno adesso è restare qui, completare il mio percorso di conoscenza e di formazione in questo Paese e trovare un lavoro». Alle spalle c’è la vita difficile in Bangladesh, dov’è nato 21 anni fa, la scelta di spostarsi in Libia due anni fa. «Volevo aiutare la mia famiglia da lì, avevo un visto per lavorare in una fabbrica di pulizie e pensavo di poter guadagnare i soldi necessari da mandare ai miei genitori perché potessero vivere in patria. Appena sono arrivato a Bengasi, ho capito che non avrei mai potuto farlo. La situazione era drammatica. Così sono stato avvicinato da alcune persone, che mi hanno spiegato cos’era necessario fare per salpare in direzione del vostro Paese».
Shuvo finisce nel vortice infernale delle traversate del Mediterraneo: la selezione dei trafficanti, il ricatto e le trappole dei soldi, l’attesa senza fine nelle camerate degli schiavisti. «A un certo punto, ci hanno detto: il mare è calmo, possiamo partire. Io e altri abbiamo pagato di più e siamo stati ricompensati: nel barcone stavamo sopra, insieme ad altre famiglie tunisine. Sotto c’erano altri bengalesi e africani: erano in uno spazio chiuso, irrespirabile». Ventiquattr’ore alla deriva in acqua, «chi conduceva il mezzo non aveva il navigatore. Ricordo solo la paura, tanta paura, e ringrazio ancora il cielo per l’intervento delle autorità italiane che ci hanno salvato».
Da lì parte la corsa: prima la Sicilia, le procedure di identificazione, poi lo smistamento nelle strutture del Nord Italia fino all’arrivo in Brianza. Tutto cambia quando alla burocrazia degli ispettori si sostituisce la possibilità di un percorso, l’incontro con persone che vogliono fare un pezzo di strada insieme. Magari non per sempre, ma almeno per oggi e domani. Restare nel limbo dei permessi e dell’attesa serve a poco, meglio imparare a vivere in Italia. E continuare a correre.