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Il simbolo. La storia di Marco Cavallo, che ha incontrato il Papa a Trieste

lunedì 8 luglio 2024

Marco Cavallo

Lo hanno sistemato lì, all’ingresso del Convention centre, proprio dove il Papa è passato sulla sua carrozzella prima di entrare a parlare coi delegati. Ed è stato il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, a spiegare a Francesco la sua storia, a cui s’intreccia quella di Trieste. Anche Marco Cavallo ha avuto il suo momento di partecipazione alla cinquantesima Settimana sociale dei cattolici d’Italia.

La scultura azzurra, alta 4 metri e diventata l’icona della lotta sociale, medica e politica a favore della legge sulla chiusura dei manicomi – la cosiddetta legge Basaglia del 1978 – nacque proprio all’interno del manicomio nel 1973 dai disegni di una donna ricoverata, Angelina, e rappresentò da subito le istanze di libertà e di riconoscimento della propria dignità avanzate dai pazienti. Da allora è esibito in tutto il mondo come installazione itinerante per sensibilizzare l’opinione pubblica e il mondo politico sui problemi della salute mentale e sulle condizioni degli Ospedali psichiatrici giudiziari, oltre che più in generale su quelle dei reclusi nelle carceri, nei campi profughi, negli ospizi. Marco era il nome del vecchio cavallo che nella struttura di Trieste era adibito al traino del carretto della lavanderia: i pazienti scrissero una lettera commovente alle autorità triestine per chiedere che non venisse macellato e vinsero la loro battaglia.

L'arrivo del Papa al Convention centre e Marco Cavallo lì accanto - Ansa

Ad avere l'idea di trasformare quello che all'inizio era un semplice disegno del cavallo in una scultura furono lo scrittore e drammaturgo Giuliano Scabia e l'artista Vittorio Basaglia, cugino dello psichiatra Franco. Il cavallo, di legno e cartapesta, ricorda il cavallo di Troia, contenitore delle istanze di libertà e umanità dei malati mentali: «Dai malati - spiegò lo stesso Scabia - emerge con più forza l'idea di fare un cavallo con pancia che contenga cose. Dunque l'idea di fare una casa, che ci era sembrata nascere da un'esigenza profonda, è già saltata appena l'azione pratica ha avuto inizio». Una curiosità riguarda la sua “uscita” dall'ospedale, sempre nel 1973: costruito all'interno della struttura, non si era tenuto conto delle dimensioni dell'opera e nessuna delle porte del manicomio era sufficientemente grande da permetterne l'uscita. La difficoltà era in qualche modo lo specchio dello stato di reclusione forzata dei pazienti dovuta alle allora vigenti leggi ospedaliere in merito ai malati mentali. Quando l'impasse venne risolta (sfondando alcune porte e un architrave) la sensazione fu quella della rottura anche del muro dello stigma fra il “dentro” e il “fuori”.