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Anniversario. Parla la figlia di Franco Basaglia: «La storia di mio padre vive»

Fabiana Martini venerdì 14 giugno 2024

Franco Basaglia ritratto nel suo studio in una foto del 1979

l torto maggiore che secondo Alberta Basaglia si potrebbe fare a suo padre, nell’anno del centenario della sua nascita, è la «monumentalizzazione». Franco Basaglia fermo all’idea che ci siamo fatti di lui. Per fortuna, invece, il centenario di celebrazioni organizzato in suo onore ha rimesso in circolo tutte le sue parole, che anche grazie a una nuova collocazione dell’Archivio Basaglia possono essere toccate con mano da tante persone, soprattutto giovani. Moltissime le iniziative in tutta Italia, alcune particolarmente originali come la mostra che è stata inaugurata alcuni giorni fa a Trieste e che è dedicata a uno degli oggetti — la sedia Gaudì progettata da Vico Magistretti — con cui Franco Basaglia ha inondato il manicomio di Trieste prima di distruggerlo. Perché la bellezza cura e la rivoluzione o è culturale o non è.

Alberta, in uno dei nuovi capitoli de “Le nuvole di Picasso” (Feltrinelli, 2024) ristampato in occasione del centenario, lei afferma: «”Va’ dove c’è da fare una lotta, non vivere di rendita”, scriveva Franco nel 1969 a un collega. La rendita per lui era un fardello, insieme alla fama. Avvertiva il rischio di diventare un’istituzione, seppure all’interno del perimetro del rinnovamento.» Questo rischio si è concretizzato? Dove lo vede?

Ci sono tantissime iniziative legate alla figura di mio padre, ma non so quante sposino veramente la sua causa e quanto siano veramente coinvolti nel cambiamento tutti coloro che le organizzano. Per fortuna però lo sguardo sul mondo di Franco Basaglia è stato ritirato fuori e sono tornati vivi tutti quei discorsi.

Sempre nel libro dedicato alla sua famiglia scritto con Giulietta Raccanelli, lei dice: «Chissà cosa si sarebbe inventato se non fosse morto a cinquantasei anni. Magari si sarebbe dedicato a tirar giù le sbarre del carcere; il “fine pena mai” con la legge 180 era stato cancellato dal manicomio, ma dalla galera no, né allora né oggi.» Come affronterebbe oggi la questione del carcere?

Non me la sento di mettermi nella testa di una persona come papà che ha saputo inventarsi quello che si è inventato lui. Però penso che se si trovasse oggi in una situazione di questo tipo, che ricalca l’orrore del manicomio chiuso, l’orrore dell’istituzione totale, nel lavoro sia teorico che pratico tra lui e tutto il movimento che si era creato, una via l’avrebbero provata. Quale non lo so, ma sono certa che se ne sarebbe occupato, anche perché ci sono realtà che hanno partecipato a quella lotta che adesso se ne occupano.

Nelle “Conferenze brasiliane” Franco Basaglia sostiene: «Quando diciamo no al manicomio, noi diciamo no alla miseria del mondo e ci uniamo a tutte le persone che nel mondo lottano per una situazione di emancipazione». Quali sono le situazioni di emancipazione per cui lottare oggi?

Sono le stesse a cui si riferiva lui allora ma trasferite nel presente: l’infanzia e l’adolescenza, le donne, l’immigrazione. È sempre lo stesso discorso: è il tentativo di escludere tutto ciò che non è norma. E la norma è sempre la stessa: gli anni cambiano, le situazioni cambiano, ma il mondo torna anche indietro. Alcune delle cose che pensavamo di aver ben salde stanno tornando allo stesso livello a cui erano cinquant’anni fa: i diritti delle donne, delle persone con disabilità, il fatto di non ascoltare i giovani, ma di parlare solo di loro, senza far sì che siano protagonisti del mondo, della vita; anche questo è un modo per escluderli. Colpevolizzarli perché non fanno niente, picchiarli quando protestano porta solo alla loro esclusione.

L’Archivio Basaglia si è spostato dall’isola di San Servolo all’Istituto Veneto di Lettere, Scienze ed Arti, nel centro di Venezia: che ruolo si immagina possa avere nel trasmettere in maniera attiva l’eredità dei suoi genitori?

Io credo che le carte possano essere vissute o possano essere lasciate a prendere la polvere. Il nostro tentativo ora, approfittando anche del centenario, è di avere più persone possibili che tocchino e leggano quei documenti, perché se i giovani s’impossessano di quella storia diventano anche più capaci di leggere il presente. Ci sono gruppi di studio di giovani che si trovano periodicamente in Archivio e leggono gli scritti, ma anche persone meno giovani che in questi ultimi anni si sono occupate di questi temi e si ritrovano a discutere di come quella storia e quegli scritti siano attuali e di come li si possa usare. Leggono insieme e discutono: l’intenzione è di pubblicare dei Quaderni che riportano queste discussioni. Potrebbe essere un buon inizio per usare quella storia per leggere il presente e trovare degli arnesi per agire sulla realtà.

Infine una domanda più personale, anche se il personale è politico: possiamo dire che la fantasia — ovvero per dirla con Rodari quella capacità che abbiamo tutti di immaginare cose che ancora non esistono — è stata la cifra sia dell’educazione che lei e suo fratello avete ricevuto sia della rivoluzione avviata dai suoi genitori?

Dipende dal senso che si dà alla parola fantasia: io sono abituata a vederla come una cosa molto concreta, mentre il senso generale è quello di pensare a cose che s’immagina non possano accadere; sono convinta che la fantasia serva per trovare le soluzioni a cose che si pensa non possano averle. Il crescere in un ambiente che ti dà la sensazione che sia possibile fare le cose che normalmente sono considerate impossibili ti sviluppa questo tipo di fantasia, che poi ti dà gli strumenti per ottenere cose impossibili.

Potrebbe essere secondo lei l’altro nome della speranza, quella che ad esempio manca oggi alla politica nell’immaginare mondi nuovi?

Più che speranza la chiamerei certezza. Nella fantasia di cui si parlava poc’anzi il fine era certo: non era certo che ci si arrivasse, ma era possibile; ora c’è questa rassegnazione che fa sì che nessuno guardi oltre il suo naso. Quando ero giovane, ero davvero convinta che tutto sarebbe stato meglio di com’era e lottare avrebbe portato a migliorare il mondo. Ora chi ha la percezione che la lotta porti a migliorare il mondo? La politica è appiattita nell’assenza totale di fantasia: come si può pensare che i giovani abbiano davanti la sensazione che il mondo di là da venire sia meglio di quello presente? Anche perché c’è di mezzo la paura, che è una paura reale. Ma nel momento in cui sei allenato a fare i conti con la paura, non scappi: vai a vedere cosa c’è oltre.