L'analisi. Italia-Albania, quella selezione fatta al buio (difendendo i confini
Il pattugliatore Libra della Marina Militare che ha trasportato i 16 migranti in Albania
«Tu sì, tu no». È una selezione quanto avvenuto nella notte di domenica a 15-20 miglia a sud di Lampedusa. Gli egiziani e i bengalesi, maschi, caricati sulla nave Libra della Marina militare. Destinazione Albania. Gli altri di altre nazionalità, le donne, i bambini, i “fragili”, salvi a Lampedusa. In realtà tutti erano stati salvati dalle motovedette della Guardia di Finanza mentre a bordo di insicuri barchini tentavano il viaggio della speranza partendo da luoghi di violenze come Libia e Tunisia. Non salvati dalla Guardia costiera perché quella della notte di domenica non era un’operazione Sar, ricerca e soccorso, ma un’operazione di polizia, law enforcement. «Per difendere i confini italiani», ha precisato su “X” la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, rispondendo a un post della Ong Sea Watch che denunciava come i milioni spesi per i centri in Albania potessero essere «spesi meglio per accogliere e includere, anziché respingere». Parole che ricordano quelle del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando ha sottolineato, proprio lunedì, come «la Costituzione ha posto la solidarietà alle basi della nostra convivenza», ricordando «l’impegno per la coesione sociale, per l’accoglienza, per il progresso, per l’integrazione, per il divenire della cittadinanza». Invece si interviene in acque internazionali. Perché solo lì, secondo le norme europee, si può fare un’operazione del genere. Lontano dalle coste italiane da “difendere” ma anche da occhi indiscreti. E lo si fa di notte. Nessun comunicato ufficiale sul primo “viaggio” in Albania. Nulla. Così in 16 hanno rimediato un “passaggio” verso l’Albania, a bordo di una nave militare, con cannone e mitragliere. Mentre nelle stesse ore in 238 hanno raggiunto Lampedusa (altri mille lunedì) Anche egiziani e bengalesi, o di altri Paesi cosiddetti “sicuri”. Nella rete del viaggio/deportazione verso i campi di Schengjin e Gjiader sono rimasti pochi sfortunati, “colpevoli” solo di essere nati nel Paese sbagliato, “Paese sicuro”. Meno di uno su dieci rispetto al totale degli arrivi della giornata. Eppure tutti quelli provenienti dai cosiddetti “Paesi sicuri”, ben 22 quelli stabiliti dal Governo, saranno sottoposti allo stesso iter accelerato per la domanda di asilo e nel frattempo trattenuti. Ma in Italia, e se ne occuperanno i magistrati siciliani ai quali il ministro dell’Interno, Piantedosi, imputa di fare “sentenze ideologiche” perché danno ragione ai migranti, bocciando il trattenimento. Mentre dei 16 finiti in Albania si occuperanno i magistrati romani, da remoto, senza guardare in faccia i migranti, senza leggere negli occhi la loro storia e i loro drammi. Solo in 16, per ora, poi si vedrà, al ritorno di nave Libra, se la rete ne pescherà di più. Ma la disparità di trattamento è evidente. Basti pensare che delle oltre 53mila persone sbarcate quest’anno, 22mila venivano dai “Paesi sicuri”. Ma sono in Italia. I prossimi dovrebbero finire in Albania, ma solo se bloccati in acque internazionali (questa volta evitiamo la parola “salvati”). E solo davanti a Libia e Tunisia, perché lì dovrebbe tornare nave Libra. E le barche che arrivano dalla Turchia e dalla Cirenaica? Un ulteriore diverso trattamento a parità di drammatiche condizioni. Se fuggi dai lager libici o finisci in mano ai trafficanti tunisini corri il rischio di finire dietro un muro in Albania. Se i trafficanti sono turchi o delle milizie del generale Haftar, tutto andrà bene. Con un rischio. Se per l’operazione Albania si dovessero sguarnire gli altri fronti, con meno mezzi, chi salverà (questa volta davvero) i migranti, perché non si ripeta quanto successo a Cutro e Roccella Jonica?