L'analisi. Le difese trafitte, il ruolo dell'Iran: cosa c'è dietro l'attacco di Hamas
Giorgio Ferrarisabato 7 ottobre 2023
Il funerale di un militante di Hamas ucciso dalle forze israeliane
Le analogie con il passato non mancano. A cominciare dall’anniversario dell’attacco a sorpresa del 1973 da parte dell’Egitto e della Siria che avvenne a ridosso dello Yom Kippur e colse impreparato Israele mentre celebrava la festa dell’espiazione, provocando pochi mesi dopo le dimissioni di Golda Meir e del ministro della Difesa Moshe Dayan, nonché l’embargo petrolifero dell’Opec, che tagliò la produzione giornaliera del 25% e raddoppiò contemporaneamente il prezzo del barile innescando quella crisi energetica che tagliò le gambe alle economie occidentali. Il proditorio attacco di Hamas nel giorno dello Shabbat non solo ha trafitto la fragile difesa israeliana attorno alla Striscia di Gaza mettendo spietatamente a nudo l’inspiegabile cecità dei servizi di intelligence, ma rivela senza troppa fatica la strategia che colpisce al cuore l’avvio di quell’entente cordiale fra Riad e Gerusalemme che preludeva a una normalizzazione dei rapporti fra l’Arabia Saudita e Israele. Il disegno – in attesa che Hezbollah si attivi e affianchi Hamas nell’operazione “Tempesta Al Aqsa” – è di lampante ideazione iraniana: già nelle ore successive alla prima salva di razzi la guida suprema Ali Khamenei annunciava l’appoggio di Teheran all’offensiva di Hamas, invitando gli sciiti libanesi a scendere in campo nel nord di Israele.Una trappola perfetta, che da un lato costringe Riad a giustificare l’azione di Hamas come risultato della «continua occupazione e della privazione del popolo palestinese dei suoi diritti legittimi da parte di Israele» e dall’altro sabota dall’interno il piano americano che prevedeva la legittimazione dell’antico nemico sionista da parte del gigante sunnita, stadio conclusivo di quegli Accordi di Abramo siglati nel 2020 da Benjamin Netanyahu con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, cui si è aggiunto il Marocco, che insieme a Egitto e Giordania costituiscono un solido fronte anti-iraniano. Tutto da rifare ora nel rovente mosaico mediorientale, quale che sia l’esito – in parte scontato, fra la tragica contabilità delle vittime civili, gli scambi di ostaggi, le condanne internazionali, gli accomodamenti pecuniari – dell’ennesima guerra di Gaza. In filigrana, a cinquant’anni dalla guerra del Kippur e a trent’anni dagli Accordi di Oslo siglati senza calore nel Giardino delle rose della Casa Bianca dal premier laburista israeliano Yitzhak Rabin e Yasser Arafat ci si domanda quali e di chi siano le responsabilità di quel sogno dei Due Stati rapidamente svanito. La risposta non è difficile: Hamas, Gaza, Hezbollah, la dirigenza di Fatah in Cisgiordania, lo stesso Iran hanno classi dirigenti decrepite, superate, fuori dalla Storia; anche Israele in parte soffre dello stesso morbo: quello di un integralismo di matrice religiosa avvolto nelle spire della paura che condiziona pesantemente le scelte politiche di Benjamin Netanyahu. È dagli anni Trenta del secolo scorso che si accarezza l’ipotesi dei Due Stati per tentate di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Novant’anni dopo stiamo ancora osservando le fiamme che divampano a Sderot e Ashkelon, la gente di Gaza che fa scorte di cibo e medicine, gli F16 che solcano i cieli della Striscia, i droni che sorvolano con il loro ringhio sordo i confini della più assurda delle prigioni a cielo aperto mai concepite. Non meravigliamoci troppo delle conseguenze.