Reportage. La rotta balcanica passa sulle mine
A Bihac, nei ruderi dell’ex residenza studentesca, i migranti fanno la fila per la mensa allestita dalla Croce Rossa. Che è diventata anche un dormitorio (Ennio Brilli)
Bihac, Bosnia nordoccidentale. In questo straccio di terra al confine con la Croazia i migranti brancolano come ombre a ogni angolo della città. Siriani, curdi, afghani, pachistani. Impossibile entrare in Croazia dalla Serbia. In Ungheria nemmeno a parlarne: i controlli sono serrati, la polizia feroce. Gira voce che il confine tra Bosnia e Croazia sia più facile da attraversare; non ci sono recinzioni e la sorveglianza è più blanda.
Così in pochi mesi migliaia di migranti intrappolati nei Balcani si sono riversati nella zona che va da Bihac a Velika Kladusa, cantone di Una Sana. Da qui tentano la fuga verso l’Europa danzando ignari su un tappeto di mine, infame lascito della guerra. Finora non ci sono stati incidenti, ma il rischio è alto. L’area tra Trebinje e Ravno al confine con il Montenegro è tra le più pericolose del Paese: un passo falso e salti in aria. Ma non c’è niente che fermerà i migranti, né le frontiere, né la polizia, né le mine. Se questo è il prezzo per arrivare in Europa, lo pagheranno.
Noori vive accampato da 4 giorni in un ospizio abbandonato di Bihac insieme ad altri duecento. 27 anni, afgano, la sua famiglia è nel mirino dei talebani; il padre è considerato un traditore perché lavorava per gli americani. La Germania ha aperto le porte a sua moglie e al figlio; per Noori invece l’incubo non è ancora finito. Da più di due anni passa da un campo profughi all’altro. Bulgaria, Serbia... Ha cercato più volte di varcare il confine senza mai riuscirci. Da Bihac ha tentato già una volta la fuga verso la Croazia, ma non è andata bene: la polizia lo ha braccato e lo ha riportato indietro. Non sa il pericolo che sta correndo. Ha visto i cartelli sugli alberi, un teschio bianco su sfondo rosso: attenzione, pericolo mine. Noori spalanca incredulo i grandi occhi neri: non aveva idea di cosa fossero.
«Ci spogliano di tutto, ci colpiscono, ci trattano come bestie». La donna afghana ha lo sguardo spento e le braccia solcate da due cicatrici, macabro souvenir della guardia di frontiera bulgara. Maestra elementare, è scappata da Kabul perché «lì le donne non sono libere». Viaggia da sola da circa un anno. A spaventarla – più che le mine – è la polizia: «Sono morta dentro, vorrei solo che un giorno questo incubo finisse».
Dall’inizio dell’anno le autorità bosniache hanno registrato quasi 9.000 migranti in transito, ma se ne stimano molti di più perché non ne vogliono sapere di registrarsi; temono di restare intrappolati nella morsa balcanica ancora a lungo, dunque meglio arrangiarsi e vagare liberamente. L’afflusso massiccio dei profughi ha colto tutti di sorpresa in Bosnia. Il sindaco di Bihac Suhret Fazlic è uno dei volti simbolo dell’emergenza: grazie all’aiuto di Croce rossa, Oim e ong locali è riuscito a trasformare un ex dormitorio per studenti in uno dei pochi centri d’accoglienza del Paese per donne e bambini.
Nella tendopoli di Velika Kladusa una volontaria dirige i migranti in fila per la distribuzione dei pasti come un vigile urbano. Non vuol dire il suo nome: «So cosa vuol dire non avere un tetto sulla testa e niente da mangiare». Anche i bosniaci sono stati rifugiati, in quella guerra così vivida nei ricordi. Le belle storie non si contano: a Velika Kladusa un uomo ha ospitato in casa sua più di un centinaio di migranti e il proprietario di un ristorante dona pasti caldi ai rifugiati.
Husein Klicic, presidente della Croce Rossa nel cantone di Una Sana, è provato da un’estenuante giornata di discussioni. Oggetto del contendere: i siti dove realizzare i centri d’accoglienza. L’Europa li vuole il più lontano possibile dal confine croato; l’ordine è far sparire i migranti. In cambio, s’intende, di qualche spicciolo per affrontare l’emergenza. Un film già visto, dalla Turchia alla Serbia, alla Macedonia, i Paesi della rotta balcanica più gravati dai flussi migratori negli ultimi anni. Una delega alla periferia d’Europa perché si sobbarchi un problema che gli altri Stati non riescono a risolvere. Le autorità bosniache eseguono e nel giro di pochi mesi arrangiano un centro per richiedenti asilo a Delijas, vicino a Sarajevo, e un altro a Salakovac, a pochi chilometri da Mostar in Erzegovina. «Il vero problema non è dove sistemare i migranti, ma la mancanza di una strategia politica univoca – spiega Husein –. In questa fase ci siamo fatti carico di responsabilità che non ci spettano. Per quanto ancora possiamo sostituirci allo Stato?».
L’interrogativo non è cosa da poco: il sistema di veti incrociati creato dagli accordi di pace paralizza l’attività di governo e presta il fianco a facili strumentalizzazioni. Soprattutto in vista delle elezioni del prossimo 7 ottobre, cui la Bosnia arriva logorata dal più alto tasso di disoccupazione in Europa e da una feroce propaganda nazionalista. In questo clima l’emergenza migranti ha un effetto potenzialmente deflagrante, che minaccia di precipitare il Paese nella più buia crisi istituzionale del dopoguerra.
Ma c’è già chi nella crisi intravede un’occasione da sfruttare. Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, regione autonoma a maggioranza serba, ha invocato la chiusura delle frontiere; una provocazione che serve a dimostrare l’incapacità dello Stato di far fronte all’emergenza e giustificare le istanze separatiste. Di fatto qui è già complicato sorvegliare le frontiere, figuriamoci sigillarle; ci sono solo 600 guardie a presidiare il confine, un terzo di quelle dispiegate in Croazia.
L’ora è tarda ma alla stazione di Bihac è un brulicare di gente. Altri migranti in arrivo da Sarajevo, con i loro zaini e la speranza di entrare in un’Europa che non li vuole.