L’intervista. «La ribellione dei braccianti? Sindacato e politica agiscano»
Braccianti in terra di Calabria
Quando iniziò la sua attività di denuncia, Marco Omizzolo si presentò prima di tutto in Prefettura. «Ero appena uscito dall’esperienza durissima di infiltrato tra i braccianti indiani sikh delle campagne di Latina. Avevo voglia di raccontare tutto. Così dissi al prefetto dell’epoca: sono testimone diretto di ciò che succede, parlo perché ho visto. La risposta del mio interlocutore fu sibillina: noi gli indiani li abbiamo visti soltanto nei film di John Wayne». L’aneddoto del sociologo Eurispes, che ha una cattedra come docente all’Università La Sapienza di Roma, spiega quanto è stata lunga la traversata nel deserto. Indifferenza e omertà ci sono ancora oggi, nonostante si sia aperta la stagione di contrasto al caporalato. Dalla prima protesta organizzata dallo stesso Omizzolo nell’aprile 2016 alla mobilitazione seguita alla morte di Satnam Singh, che nel giugno scorso venne lasciato senza un braccio, agonizzante davanti alla sua abitazione, a cambiare è stato soprattutto lo stato d’animo degli ultimi: considerati il nulla, oggi provano finalmente a uscire dal buio.
Il sociologo Omizzolo (con la mano alzata) tra i braccianti di Latina - Dal Web
Professor Omizzolo, si aspettava questa rivolta?
Ci sono uomini e donne che si stanno ribellando al sistema ed è un segnale importante, perché la nostra legislazione è cambiata proprio grazie alle lotte dei braccianti. Poi dobbiamo intenderci: il linguaggio spesso incapsula le persone dentro le categorie, e tutto diventa stigma sociale. Così, quando sento parlare di invisibili divento scettico: queste persone si vedono ogni giorno, sotto la luce del sole, e la schiavitù spesso si consuma a poche decine di chilometri dai palazzi delle istituzioni. Possibile non vederle? Detto questo, il vero conflitto sociale in atto da qualche anno a questa parte è quello tra penultimi e ultimi, non il contrario. E i primi hanno preso il sopravvento. Le faccio un esempio. A sollevare dubbi di costituzionalità sulla legge 199 sul caporalato, un provvedimento voluto anche dalla società civile, è stato un imprenditore cinese di Prato, evidentemente interessato a mantenere lo status quo dell’illegalità, che porta profitti e ricchezza in quel distretto. Così quelli che erano i penultimi della fila sono diventati nel frattempo i “padroni” del proprio destino e hanno conquistato un ruolo politico sociale fondamentale, che difendono. Con le armi del diritto avanzato o, se serve, della violenza, come dimostrano le aggressioni subite dai lavoratori stranieri che si sono ribellati negli ultimi mesi.
Il caso di Satnam Singh ha rappresentato un punto di rottura o no?
La morte di Satnam Singh ha palesato un arretramento nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori, che sono diritti costituzionali. In quella vicenda non c’era in ballo solo un contratto di lavoro, un orario o un certo tipo di retribuzione. Era in gioco il riconoscimento stesso della dignità della persona. Con Satnam Singh l’obiettivo è stato nascondere del tutto una vita, fino ad occultarla, proprio perché quella non veniva considerata vita da chi l’aveva reclutato nelle campagne. Erano braccia, semplicemente braccia... perché il bracciante è utile in quanto braccia: se non mi è più utile, lo butto. E questo è quello che è drammaticamente successo. Poi c’è un secondo aspetto.
Quale?
È legato a ciò che è accaduto dopo. Il processo sulla morte di Singh purtroppo non sta andando da nessuna parte e non è un caso isolato. Nel giugno scorso è scoppiato uno scandalo analogo, dopo la pubblicazione in rete di un video nelle Langhe in cui un caporale prendeva a bastonate lavoratori pagati 500 euro al mese, sfruttati 16 ore al giorno, per di più in una zona dove ci sono i vini più pregiati al mondo. È finito tutto con un patteggiamento, mentre alle aziende non è stata fatta alcuna contestazione. La risposta a casi come questi non può essere dunque soltanto giudiziaria. È importante che i braccianti denuncino, ma non è sufficiente. L’eccesso di delega all’intervento di forze dell’ordine e magistratura rischia invece di mettere in secondo piano l’altra parte del discorso, che è la riflessione culturale ed educativa sul fenomeno.
Da dove sarebbe necessario partire, in questo senso?
Dalla consapevolezza che a buona parte dell’opinione pubblica, ancora oggi, conviene non vedere gli schiavi e lo sfruttamento. Perché, intervenendo su questa piaga, dovremmo poi scoprire un sistema di omertà mafiosa che lega aziende criminali e mondo dello sfruttamento. Questo stesso sistema è creatore di consenso sul territorio, non dobbiamo dimenticarcelo. I padroni non sono coloro che lavorano nel buio, ma coloro che organizzano il consenso. Papa Francesco ha ragione: siamo in una fase storica di passaggio, che ha trasformato l’uomo in oggetto, soprattutto se è povero e sfruttabile. Il punto è che questo sfruttamento conviene: secondo Eurispes il fatturato dei caporali vale 24,5 miliardi.
Come giudica la novità dei lavoratori stranieri che si auto-organizzano per rivendicare dignità e diritti?
È vero, c’è una rabbia molto più diffusa, che non colpisce solo l’azienda che sfrutta. C’è un sentimento di frustrazione nei confronti del sistema Stato e un mondo accademico che si interroga sul fenomeno del caporalato. La verità è che le comunità straniere ci valutano e hanno compreso che le risposte non sono arrivate e che tanti interessi mafiosi non sono neppure stati toccati. Non si può neppure trascurare che, a livello territoriale, il sistema a suo modo ha reagito: in provincia di Latina ci sono ancora spedizioni punitive di indiani caporali contro altri indiani che si ribellano. È il processo di restaurazione prodotto da membri della comunità, per cui nulla va modificato negli equilibri sociale ed economici interni. Ora la reazione emotiva dal basso cui abbiamo assistito, da Prato a Piacenza, va perciò accompagnata a due richieste: una è per il sindacato, l’altra è per la politica. Alle organizzazioni confederali dobbiamo chiedere di fare lo sforzo di passare dall’azione di strada all’azione dentro le aziende che sfruttano. C’è uno spazio di confronto e un bisogno di democratizzazione nelle relazioni con chi comanda.
E alla politica, cosa dobbiamo chiedere?
Bisogna colmare la distanza su regole e linguaggio, dire che non bisogna disturbare chi produce in un settore come l’agricoltura ha prodotto tanti danni. Gli enti locali possono fare molto, penso all’impegno fondamentale di Avviso Pubblico, con la proposta ai sindaci di costituirsi parte civile nei processi, di aprire uffici per affrontare l’emergenza sul territorio, di trasformare le loro politiche sociali in base alla composizione demografica sociale delle loro comunità. Il risentimento e il rancore verso il padrone e verso lo Stato sono evidenti: ora questa indignazione va incanalata in risposte immediate, a favore di questi lavoratori.