Il caso dj Fabo. Suicidio assistito, avere il coraggio di dire «questo è un uomo»
Dj Fabo
Caro direttore,
e se invece di chiederci, come ha fatto un pm milanese evocando il corpo vulnerato e vulnerabile di Dj Fabo «se questo è un uomo», ci chiedessimo «se questo è uno Stato», che concede a tutti i cittadini uguali libertà, di cura, di scelta, di autonomia, di vita?
Perché è fin troppo semplice focalizzarsi sulla condizione. Sarebbe come isolarci dal nostro contesto ambientale, affettivo, sociale per farci giudicare per quello che siamo ancora capaci di fare e di produrre in relazione a una normalità standardizzata di vita che nulla ha a che fare con il nostro stato. E poi, qual è la nostra qualità di vita reale e percepita? E il nostro limite di sopravvivenza?
Noi aiutiamo chi non ce la fa o assecondiamo l’abbandono disperato che si infrange nell’oblio? Perché i riflettori che si accendono sul suicidio assistito, come ultima spiaggia, intercettano l’autodeterminazione di chi decide, ma anche il pensiero di chi non è in quella condizione o che potrebbe varcare quella soglia ed è sospeso. Sospeso come quel giudizio che ritorna in Parlamento per cercare, se mai possibile, di riflettere, discutere, decidere. Su una legge. Un’altra di quelle imperfette ma doverose, perché si interroga sulla libertà di scelta e su quello che non dovrebbe più succedere. E invece succede. Che non è soltanto il processo a Marco Cappato (assolto da ogni possibile “martirio”), ma quel pensiero distorto sul fine vita come “emergenza” nella nostra società, “priorità” della nostra nazione con tutto il circo mediatico a fare da contorno e da corolla. Che è invece uno dei tanti diritti violati, sacrosanto come il diritto di cura disatteso nei suoi servizi, nei suoi bisogni e nel suo sostentamento, anche quando la vita non sembra albergare in un corpo che diventa condivisione di un contesto affettivo ancora in grado di interpretarne messaggi, sentire emozioni e intercettare segnali di vita. Segnali che non vogliamo riconoscere, troppo impegnati a guardare altrove, per non farci impaurire da quello che vediamo e che ci riguarda, anche se tanto, troppo distante da noi. Sia che sia disabilità, sia che sia diversità in tutte le sue forme e accezioni.
Il tema del fine vita, come quello dello strumento del “testamento biologico”, diventa allora una pericolosa scorciatoia capace di portare alla deriva in maniera disarticolata percorsi di cura e speranze attese e disattese, in una contrapposizione altrettanto pericolosa che si annida nel contesto della vita quotidiana, e in essa diventa virale. Perché anche solo pensare che una vita “non sia degna” di essere vissuta getta un colpo di spugna su anni di lavoro, di integrazioni, di guerra all’indifferenza e alle differenze, di nuovi progetti di vita creati dai professionisti della sanità e del welfare, dal volontariato, dall’associazionismo e dalla cooperazione, da piani di azione dell’“Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità” ancora purtroppo disattesi.
Non chiediamoci dunque “Se questo è un uomo”. Perché stride molto quel “se” anteposto a “uomo”. Come se non si avesse il coraggio di dire “questo è un uomo”.
Direttore Centro studi per la ricerca sul coma “Gli amici di Luca” nella Casa dei Risvegli Luca De Nigris, Bologna