Naufragio. I racconti dei sopravvissuti: «La polizia greca ci ha tolto le prove»
Alcuni sopravvissuti al naufragio in Grecia
«Siamo partiti da Tobruk, nella parte est della Libia, vicino al confine con l’Egitto. Dopo due giorni di navigazione, eravamo già senza cibo né acqua, costretti a provare a dissetarci attingendo dal mare...». Lo chiameremo Hassan. Ha 25 anni, è di nazionalità siriana ed è uno dei superstiti del tragico naufragio di Pylos. Lui e gli altri 103 sopravvissuti (il più giovane è nato nel 2007) sono ora divisi fra l’ospedale di Kalamata e il campo di Malakasa. Ed è lì che tre volontarie dell’Operazione Colomba – il corpo di pace dell’associazione Comunità Papa Giovanni XIII, presente in Grecia per aiutare i migranti – hanno raccolto la sua testimonianza, che ora Avvenire è in grado di riportare. Nel proprio racconto, Hassan ripercorre i concitati momenti che hanno preceduto l‘affondamento del barcone: «Abbiamo contattato l’Italia (non precisa quale ente o autorità, ndr), ma ci hanno detto che non potevano soccorrerci perché non eravamo nelle loro acque (il riferimento è presumibilmente alla zona Search and Rescue di competenza italiana, ndr)» . Poi, prosegue il giovane siriano, «al quinto giorno di navigazione la nave andava lentissima. Alla sera si è avvicinata un’imbarcazione greca». Di che genere? «Police», dicono lui e altri superstiti, intendendo una imbarcazione con insegne e uomini in uniforme. E cosa ha fatto? «Ci ha lanciato una fune, iniziando a trainarci. Il mare era calmo, il peschereccio su cui stavamo non era guasto - sostiene Hassan -, ma le manovre con la fune hanno destabilizzato la barca che si è rovesciata. Siamo tutti caduti in mare, era notte fonda. La barca greca si è allontanata, lasciandoci al buio nel mare per almeno due ore, poi sono arrivati i soccorsi».
Diversi testimoni: il tentativo di traino ha contribuito al disastro
La sua testimonianza si interseca con quelle di altri sopravvissuti riportate l’altro ieri dal quotidiano ellenico Kathimerini, che ha riferito come almeno nove superstiti siano stati ascoltati dall’autorità portuale di Kalamata. Le loro ricostruzioni – e anche quella di Hassan, seppur con alcune differenze – addosserebbero parte della responsabilità dell’affondamento alla Guardia costiera greca, per via del tentativo fallito di trainare il barcone coi migranti di origine siriana, egiziana, palestinese, pachistana. Secondo alcuni, le manovre durante il tentativo di traino avrebbero fatto oscillare il natante stracarico di persone. «Per i primi minuti siamo andati avanti, ma poi la Guardia costiera ha girato a destra ed è così che la nave si è ribaltata», si legge in una delle testimonianze riportate da Kathimerini. E in un’altra, un sopravvissuto dà una versione lievemente diversa da altre: «Quando la nave si è ribaltata sul posto, la Guardia costiera ha tagliato la corda e ha proseguito da sola – riferisce –. Si è allontanata e tutti abbiamo gridato. Dopo 10 minuti, sono tornati con delle piccole barche per prendere le persone, ma non sono arrivati dove si trovava la barca, hanno preso solo quelli che avevano nuotato e si erano allontanati».
Hassan: avevo video e foto sul cellulare, ma la polizia me lo ha sequestrato
Dal canto suo, il 25enne siriano ascoltato dalle volontarie italiane riferisce altri particolari che meriterebbero di essere approfonditi: «Io avevo tutte le prove sul mio telefonino, le foto e i video. Ma dopo che siamo sbarcati, la prima cosa che ha fatto la polizia è stata quelle di sequestrarci i passaporti e i telefonini, con dentro tutto. Ho perso tutte le prove. E un poliziotto mi ha anche minacciato, avvicinando il suo pugno al mio occhio. Come a dire: stai attento...». In quanti erano a bordo? Sia Hassan che altri superstiti confermano l’alto numero ipotizzato finora: «Eravamo 750. Siamo stati salvati in 104, quindi mancano alla conta 646 persone. Soprattutto donne e bambini, che stavano nella stiva, mentre noi eravamo in coperta».
Fuori dal campo, le volontarie della Papa Giovanni parlano con diversi parenti dei dispersi: sono fratelli, cugini, zii delle presunte vittime, giunti qui (come a Cutro nei mesi scorsi) da tutta Europa,con una foto del proprio congiunto in mano, nella speranza di trovarlo fra i salvati e non fra i sommersi. Ieri nelle acque al largo del Peloponnesso è stato ripescato l’ennesimo corpo, il numero 82 della conta ufficiale delle vittime, ancora lontana da ciò che potrebbe putroppo essere l’agghiacciante bilancio finale. Il cadavere è stato portato a Kalamata, dove ieri sera sono sbarcati anche 63 migranti soccorsi dalla Guardia Costiera greca mentre erano su una barca a vela alla deriva a sud ovest di Capo Tenaro. Nel frattempo, al di là del tornello di metallo che regola entrata e uscita nella struttura di Malakasa, Hassan scruta l’orizzonte. «Questo non c’è più», dice, indicandosi il cuore. «C’è, ma forse sta dormendo», prova a dirgli una volontaria italiana. Ma Hassan ribatte: «Fi, c’è, ma è morto».