L'intervista. Barca: «È la partecipazione la risposta ai populismi»
«Sono un inguaribile marxista, perciò ritengo indispensabile l’analisi, la comprensione della fase che stiamo vivendo... ». In questa autodefinizione, apparentemente nostalgica, c’è tutta l’attuale distanza tra Fabrizio Barca e «una politica presa dalla tattica elettorale ». Sarà per questo che dopo aver consegnato al Pd romano la mastodontica mappatura dei circoli cittadini, l’ex ministro della Coesione del governo Monti si è messo di lato, ha lasciato anche il 'posto fisso' al Tesoro ed è tornato alla passione di sempre: lo sviluppo dal basso dei territori. Ora ha una proposta trasversale che lancia nel dibattito pubblico: «Occupiamoci dei perdenti degli ultimi 30 anni. I perdenti dell’apertura delle frontiere, i perdenti del cambiamento tecnologico, i perdenti delle riforme strutturali calate dall’alto, senza andare a vedere come stavano messe scuola, sanità e servizi sociali nei singoli territori».
Chi sono questi 'perdenti', Barca?
Sono anche quel quinto di popolazione, oltre 13 milioni di abitanti sparsi in 4mila Comuni, che vive nelle aree interne, dov’è una avventura portare i figli a scuola e un rischio per la vita avere un attacco d’asma. Dal 2012 l’Italia ha un programma del- la presidenza del Consiglio che si chiama Snai: l’ho messo in piedi io e ora ne sono consigliere a titolo gratuito. I finanziamenti ci sono: tra stanziamenti delle ultime leggi di Stabilità, fondi comunitari e regionali muoviamo circa 500 milioni. I primi progetti infrastrutturali stanno per partire, intanto l’Europa vuole sapere come funziona e come può diventare una prassi comunitaria.
Come funziona questo modello?
Ha una forte struttura centrale, che dà le linee guida, monitora e corregge. E poi c’è una poderosa delega alle comunità locali - sindaci, associazioni, rappresentanti dei cittadini, dirigenti scolastici, piccole imprese - che decide cosa fare e come. Così realizziamo cose più utili e facciamo capire che le diseguaglianze sociali non sono dovute all’immigrazione - come vogliono far credere i pifferai magici dell’autoritarismo -, bensì alle cattive politiche. Per queste zone lo Stato ha sempre speso soldi, spesso però buttandoli. Quella che io chiamo 'compensazione compassionevole' deve finire, serve solo a prolungare l’agonia di certe aree.
Cosa intende per compensazione compassionevole?
Intendo un finanziamento a un’azienda che non ha alcuna possibilità di andare avanti. Intendo un cantiere che non serve, ma dà solo la sensazione che lo Stato fa qualcosa. Con un modello partecipativo, invece, i risultati si hanno già prima che arrivino i finanziamenti. Qualche esempio? Nell’area delle Madonie mettersi insieme ha portato a una scelta banale, semplice, eppure decisiva per il turismo: una fermata per bus dall’aeroporto di Catania. Prima non c’era. In Val Maira, ha portato alla scelta di costruire una nuova scuola che accorpa vari plessi con trasporto pubblico garantito per evitare le 'classi uniche' delle zone montane. Ovviamente con la banda larga assicurata. È lo Stato centrale che si fa tutordei territori, è un’esperienza di democrazia deliberativa. Serve anche a calare le riforme nella realtà. Se anche fosse ineluttabile che un’area debba avere un solo ospedale, allora è altrettanto ineluttabile che lì le ambulanze debbono avere un medico e attrezzatura per gestire in itinere un accenno di infarto. Questo a Roma non lo sanno, lo sanno i sindaci e i cittadini.
Molto faticosa, si può immaginare, questa mediazione con i territori...
Non quanto si pensa. Questo Paese, se tiene, lo deve ai territori, ai Comuni, alle piccole imprese. La classe dirigente locale è molto interessante. Tutta: anche la Lega ha sindaci in gamba. Ma con i finanziamenti a pioggia gli amministratori sono solo intermediari che tendono a gestire i soldi nelle segrete stanze. In questa logica qui, invece, sono obbligati ad aprirsi.
Lei ritiene che tutto ciò serva anche a frenare spinte populistiche...
A me l’espressione populismo non dice nulla. Io vedo piuttosto una spinta all’autoritarismo che fa presa, ed è normale, su cittadini che pensano di non contare niente, di essere esclusi dalle opportunità e penalizzati da tagli e riforme. A un certo punto dicono: 'Ci vuole l’uomo forte che rimette a posto le cose'. È un pericolo non solo in Italia, ma in tutta Europa e nell’intero Occidente.
Questo rapporto stretto con i territori lei lo propose anche come linea politica del Pd, con scarsa fortuna...
In effetti il concetto era quello, anche per il partito. Nel Pd ci sono tante ottime energie alle quali però arriva un messaggio sbagliato: non pensare a crescere e a farti una cultura politica, pensa a posizionarti bene tra correnti e leader.
È quindi totalmente disinteressato ai tentativi di far tornare a dialogare il Pd di Renzi, Pisapia e gli altri pezzi di sinistra?
Rispetto molto chi sta portando avanti questo tentativo. Però, da una parte e dall’altra, vedo il prevalere della tattica a fini elettorali sulla ricerca di una visione comune. Ecco: manca l’analisi. È così non si va lontano. Senza condivisione tutto è precario e fragile.