Al Lingotto di Torino. La nuova pelle dei militanti dem
L'assemblea Pd al Lingotto (Ansa)
Rispetto alle Leopolde, il Lingotto 2017 di Renzi ha una media età che sale di almeno 10 anni. E una densità di amministratori e dirigenti dem in carriera decisamente più alta di quella che si vedeva alla kermesse fiorentina, per sua natura “civica”. E così, quell’amalgama tra riformismo, moderatismo e sinistra tradizionale così difficile da raggiungere tra i capicorrente, è ancora più complessa da realizzare in una platea così variegata.
Difficile tenere insieme, insomma, il “popolo del 5 dicembre” – quelli che sono entrati nel Pd dopo la sconfitta referendaria, più renziani dei renziani della prima ora – con i capelli grigi di sindaci e consiglieri comunali che vedono Renzi più come ultimo appiglio che come leader indiscusso.
"Dov’è la riforma costituzionale che D’Alema doveva fare in 6 mesi?", attacca subito Chiara Meazza, assessore al sociale di Senago, nel milanese. È lei l’emblema dello stato d’animo degli under 30 che hanno vissuto come uno smacco la sconfitta al referendum e ora vogliono spingere Renzi verso la “remuntada”. Per lei dubbi non ce ne sono: la sinistra moderna è quella di Matteo, liberale in economia e sociale con i deboli. "Ma la vera urgenza – prosegue - è dare soldi ai comuni, che oramai sono chiusi in una gabbia". In ogni caso, il punto focale è uno: "M5S sceglie il candidato-sindaco di Monza con 20 click. Noi siamo l’ultimo argine al populismo".
Girando nella platea le commistioni sono obiettivamente originali: seduti uno a fianco all’altro, i tre segretari di Cgil, Cisl e Uil dello stesso distretto industriale. Il Nord domina: ovvio che sia così al Lingotto di Torino, però la sensazione è che ciò rispecchi un maggior radicamento delle idee di Renzi nel Settentrione. Tra l’altro i dati referendari parlano chiaro.
A fianco a un navigato consigliere provinciale di Potenza che ammette “scegliamo Renzi perché altre scelte non ce ne sono” siedono under40 che nemmeno sono iscritti al Pd. La sfida è che abbiano uguale potere di parola al Lingotto ma anche nel partito che sarà. È il caso di Lorenza Baroncelli, assessore alla Rigenerazione urbana di Mantova, città della cultura 2016: "Chi vuole davvero fare qualcosa di costruttivo per il Paese oggi sceglie Renzi. Lui è nato per governare, e governare significa rappresentare tutti, a sinistra e a destra. È normale. Il macchinone Pd non mi convince, Matteo sì". Al suo fianco Tommaso Sacchi, che a 34 anni già guida la segreteria del sindaco Dario Nardella a Firenze per l’area culturale: "Quest’anno ho fatto la mia prima tessera. Qui c’è davvero spazio per le giovani generazioni, si fanno politiche proattive, vere. Si può crescere perché Matteo ha aperto il partito a tutti".
I “nativi Pd” dominano, c’è chi aderisce dal 2007, dal Lingotto di Veltroni. E assicura che sta uscendo chi non ci ha mai creduto nel progetto dem. Chi però ha 10 anni di militanza alle spalle, avverte: "Guardate che quelli di Orlando, se perdono male, se ne vanno". Chi ha occhi sul territorio teme che la slavina non sia ancora finita.
Poco male, per i più giovani. E specie per chi arriva. Da Roma Enrico e Mimmo assicurano: "Questo Renzi umile ci piace, la botta lo ha cambiato e gli ha fatto bene. Lui è l’unico statista presente nel Paese". Il problema, però, è che fare sui territori: "Se dobbiamo stare sotto i soliti capibastone, non va bene", dicono pensando ai fatti della Capitale. E in effetti il nodo di come articolare il partito nelle città non è stato ancora sciolto.
Guardando la platea, è facile riconoscere chi viene dal voto o dalla militanza o addirittura da esperienze amministrative con Forza Italia. Sono quelli che si spellano le mani quando parla Renzi o quando Biagio De Giovanni si scaglia contro i magistrati che condizionano la politica. Sono un drappello discreto. Che soffre in silenzio, invece, quando Martina scalda i custodi della sinistra tradizionale. Il ragionamento di base è semplice: "Facciano pure la tassa sulla speculazione, basta che non toccano l’Imu…".