Attualità

Reggio Calabria. La 'ndrangheta si veste social

Federico Minniti mercoledì 8 novembre 2017

Nome in codice: 'Cumps'. Così si definivano i sodali del clan di Brancaleone, nel reggino, composto dalle nuove leve della ’ndrangheta. Ne ha svelato l’esistenza l’operazione 'Banco Nuovo', diretta dalla Direzione distrettuale antimafia reggina che ha coordinato le indagini congiunte della Mobile e del Reparto investigativo dei Carabinieri, portando all’arresto di 50 soggetti ritenuti organici al mandamento ionico.

I 'Cumps', derivazione social di 'compare' che indica l’appartenenza a una società di ’ndrangheta, erano soggetti pericolosi che facevano della violenza tracotante un biglietto da visita. Camminavano armati fino al collo, al punto da esplodere alcuni colpi di arma da fuoco in pieno giorno solo per farsi 'sentire' dalla popolazione oppure simulando una rapina di qualche caramella per sfidare le forze dell’ordine. Roba da fiction, e il confine tra realtà e finzione era la linea sottile sulla quale camminavano: basta visitare i loro profili Facebook - setacciati dagli inquirenti - con le immagini della fiction Romanzo criminale (ma coi loro nomi) o fare i viveur tra night-club e discoteche. A guidarli due baby-boss: Nicola Falcomatà, 29 anni, e Paolo Benavoli, 28. Avevano avviato la nuova locale di ’ndrangheta di Brancaleone all’indomani della pace dopo la faida di Africo-Motticella. Si tratta di un gruppo autonomo, dedito alle attività convenzionali della ’ndrangheta come estorsioni e narcotraffico, che nasceva come 'esigenza' delle famiglie malavitose del territorio insofferenti verso gli 'africoti', ossia i discendenti di Giuseppe Morabito, capi-locale per conto della Santa, l’organizzazione di vertice delle ’ndrine.

I capi dei 'Cumps' erano legati alla famiglia dei 'Tiradrittu' per via dei Mollica; grazie a tale riconoscimento nelle gerarchie mafiose avevano potuto addentrarsi nelle dinamiche criminali. Se Benavoli e Falcomatà, infatti, erano i boss dell’ala militare, a controllare Brancaleone e i paesi limitrofi ci pensavano i fratelli Annunziato, Giuseppe e Pietro Alati, quest’ultimo funzionario del Comune e finito in manette in quanto 'manipolatore' degli appalti pubblici a favore del proprio clan. Se i giovani imitano le scene di 'Gomorra' in piazza, i fratelli Alati interrompono una seduta della giunta di Brancaleone il 10 luglio 2014 inveendo contro sindaco e assessori: «Se non lavoriamo, qualcuno si fa male », urlava Giuseppe Alati contro gli amministratori pubblici, inferocito per un appalto finito a un’altra impresa. Le manutenzioni idrico-fognarie erano 'cosa' degli Alati che avevano persino provato ad inserirsi nel rifacimento della facciata della locale stazione dei Carabinieri. Imprenditori mafiosi spregiudicati, al punto da compiere 16 estorsioni ad altrettante imprese per disincentivarle a operare a Brancaleone. Gli Alati, però, dovevano mantenere i patti. Anche perché gestire gli appalti non era solo un fatto economico, ma di prestigio criminale. Tutte le forniture pubbliche che superavano la 'soglia' di 150mila euro erano appannaggio dei Morabito, così aveva deciso la Commissione provinciale della ’ndrangheta. Regola che gli 'africoti' avevano infranto in occasione della costruzione della nuova ala del cimitero di Bruzzano: il gesto creò frizioni, ma era un segnale di potere rivolto ai 'Cumps'. Polizia e carabinieri hanno eseguito ordinanze di fermo anche in Lazio, Lombardia e Liguria.