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L’intervista. Ecco come mettere in sicurezza il fiume Po

Paolo Viana martedì 13 agosto 2024

Il Po nei pressi di Torino

Il Po è il più grande fiume d’Italia ed è la spina dorsale della Pianura tra le Alpi e l’Appennino. Pianura Padana, appunto. Un fiume che è un pezzo d’Italia: da secoli alimenta uomini, animali e attività economiche, ma anche cultura, biodiversità, ricordi… In questi mesi di caldo africano, ma lontani dall’incubo siccità del recente passato, abbiamo ripreso a “navigare” sul Po, a saggiarne la salute ambientale, a incanalarne le acque verso le campagne. Un breve viaggio nell’ultimo tratto di fiume, prima del Delta e del mare Adriatico, che ha dimostrato inconfutabilmente una cosa: a dispetto di quel che si crede, diciamo pure anche a dispetto della narrazione, non tutti i problemi dell’acqua sono figli del cambiamento climatico. Il Po risente fortemente delle precipitazioni che, nel corso dell’inverno, si depositano sotto forma di neve e ghiaccio sulle Alpi e che quest’anno sono state estremamente copiose. L’andamento pluviometrico condiziona la portata e quindi l’alternarsi di piene e magre. Ma la morfologia del corpo idrico - un fiume è chiamato così, in linguaggio idrologico - non dipende solo dal riscaldamento globale, bensì, e in massima parte, dagli interventi dell’uomo, a partire da quelli del passato che dispiegano ancora i loro effetti. Ne ragioniamo con il segretario generale dell’Autorità di bacino del fiume Po, Alessandro Bratti.

I problemi del Bacino del Po sono causati dal cambiamento climatico o dalle attività umane? «Entrambi i fenomeni – risponde Alessandro Bratti, segretario generale dell’Autorità distrettuale del fiume Po – sono correlati. L’area del bacino padano è uno dei più critici hotspot climatici, dove gli eventi estremi si manifestano con una frequenza non preventivabile: le infrastrutture realizzate per le bonifiche e le irrigazioni risalgono a un periodo che aveva caratteristiche climatiche molto diverse; si deve ripensare, dunque, la gestione del territorio in modo che sia resiliente ad un clima “tropicale”».
Quindi, costruiamo vasche di laminazione per le piene e dighe contro la siccità?
Il dibattito non mi appassiona. Non ho nulla contro le vasche di laminazione o le dighe ma sono strutture rigide che invece di generare resilienza possono ingessare il territorio: un argine, una vasca, una diga non cambiano con il cambiare delle piogge.
Allora cosa propone?
L’Autorità indica misure che possano assecondare nel tempo l’andamento della natura del fiume: invece di una vasca di laminazione a volte è meglio una tracimazione controllata, in caso di alluvione. Non “casse” ma “aree” che normalmente sono coltivate e all’occorrenza accolgono le acque in eccesso. Ovviamente, indennizzando gli agricoltori.

Alessandro Bratti - Dal Web

E con la siccità come la mettiamo?
In alcune aree le dighe si possono fare, ma esistono anche opere meno invasive per collettare le acque: il piano laghetti proposto da Anbi e sostenuto da Coldiretti è, in tal senso, più gestibile e adattabile a condizioni climatiche come quelle attuali.
Sul piano finanziario quale soluzione è concretamente realizzabile?
Non è stata fatta una comparazione. Nella ricostruzione post alluvione in Romagna abbiamo ipotizzato interventi per la sicurezza di circa 4 miliardi, che prevedono anche tracimazioni controllate nei tratti arginati e il completamento di alcune vasche di espansione. Insomma, un mix di tradizione e innovazione. Non si debbono fare scelte ideologiche ma considerare i tanti vincoli che pone un territorio. Nel Torinese e nella valle dell’Enza stiamo ragionando su due invasi ma non siamo dell’idea che si debba fare un invaso per ogni valle. Sa qual è il problema?
Qual è?
Che in questo campo non si può e non si deve semplificare, perché nulla è semplice. Servono studi e misure adeguate all’obiettivo. Lavoriamo su un cruscotto di soluzioni, come avviene per la gestione dei rifiuti. Invece, si tende a semplificare e a presentare al cittadino soluzioni rapide, semplici e miracolistiche, che, ovviamente, una volta calate sul territorio, sono spesso irrealizzabili.
Quindi non mancano le idee, ma i soldi?
Gli studi, in molti casi, ci sono. Noi abbiamo i dati necessari. Si possono aggiornare e migliorare ma nel nostro piano di gestione del rischio alluvioni ci sono indicazioni da anni. Certo, poi ci vogliono le risorse ed infatti al momento il quadro complesso delle esigenze per interventi di prevenzione per la sicurezza idraulica cubano circa 15 miliardi di euro, che non sono stati ancora finanziati se non in piccolissima parte. Mentre si investono poi miliardi per indennizzi e riparazione dei danni nei post eventi.
Un altro argomento sensibile è la compatibilità tra gli obiettivi: viene prima la sicurezza idraulica o la tutela della biodiversità fluviale?
Sicurezza idraulica e biodiversità sono cose diverse. La nostra indicazione è che il prelievo dei sedimenti dal fiume vada evitato e e diamo pareri severi, perché a forza di estrarre abbiamo trasformato il Po e i suoi affluenti per alcuni tratti in un canalone, incrementando l’erosione costiera. Per contro, in alta valle, quando si scioglie un ghiacciaio, enormi masse di sedimenti scendono e possono depositarsi in tratti critici dei corsi d’acqua, incrementando le condizioni di rischio e pericolosità: in quel caso bisogna estrarre. La stessa differenza di approccio si può attuare nel caso della biodiversità: quella delle Alpi non è la medesima del Delta, si può avere un diverso approccio senza sconvolgere l’ecosistema.
Par di capire che si faccia molta fatica a non semplificare e a seguire questo approccio diversificato. Cosa manca?
La governance dell’acqua non è aiutata dall’assenza di una cultura della materia, in genere nel Paese ma anche nella politica e nei media. Ciò mina alla radice la capacità di affrontare i problemi in modo integrato, anche perché vi è spesso una sovrapposizione delle competenze, ad esempio con le Regioni. Inoltre, le autorità di distretto non sono messe nelle condizioni di pianificare. Manca personale e mancano fondi: si era deciso di crearne uno, due finanziarie fa, ma è stato utilizzato per altri obiettivi. Il nostro intervento in Romagna, dove abbiamo collaborato con il commissario per la ricostruzione, non è costato un euro allo Stato.
Cosa vi ha insegnato questa esperienza?
Che in caso di alluvioni la gestione del post evento deve per forza essere coordinata dall’Autorità di distretto perché l’evento alluvionale quando è eccezionale e influenza tutta la pianificazione successiva. E l’ente competente deve intervenire immediatamente: il lavoro fatto con il generale Francesco Paolo Figliuolo deve diventare una procedura standard: si deve legiferare al fine di gestire in regime ordinario.
Cosa pensa del commissario alla siccità?
È persona qualificata. Reputo anche interessante la costituzione della cabina di regia ma non condivido l’italica mania di nominare commissari per ogni evenienza. Mentre ci dovrebbe impegnare in modo costante per far funzionare gli strumenti ordinari.
Concludiamo con il progetto più emblematico del Po di domani: la rinaturazione che dovrebbe restituirci un fiume con rami e anche attive, più verde, più biodiverso…
La rinaturazione è un piano che mira a ricostruire habitat più naturali per il fiume e non a caso si concentra sulle parti su cui l’uomo è intervenuto pesantemente. Ciò ha comportato anche alcuni contrasti con i pioppicoltori, che attraverso la discussione si sono riusciti a appianare. Le cinque aree che sono oggetto del primo target del Pnrr sono già partite.