C'erano tante fasce tricolori alla fiaccolata di solidarietà a Melito Porto Salvo. I gonfaloni dei Comuni, gli stendardi delle associazioni, il guidone degli scout. Simboli e volti che hanno sfilato, mesti, sul corso centrale della cittadina dove, via via che le fiammelle avanzavano, chi stava ai crocicchi delle strade si voltava dall’altra parte.
C’era anche una Melito, sparuta, ma ostinatamente presente, che sentiva sulla propria pelle il disgusto della violenza subita per quel silenzio, adesso assordante. Adesso che il branco, vestito dal clan, è stato svelato dall’intervento dei carabinieri. Eppure non avevano scelto l’ombra, gli otto ragazzi arrestati per lo stupro di gruppo, durato due anni, ai danni di una tredicenne. Avevano optato per esibire il loro strapotere sociale. Uno di loro era Giovanni Iamonte, figlio del boss Remingo al 41bis. Iamonte è molto più di un cognome a Melito Porto Salvo: è la cappa che disorienta giovani ed adulti dalla via della legalità. Così come è capitato anche al padre della giovane vittima, che in un primo momento ha pensato di poter usare lo stesso linguaggio dei carnefici. La divisa non va di moda a Melito Porto Salvo.
«Chiedo perdono per le nostre assenze», dice il parroco, don Benvenuto Malara. Un’assenza corale, anche della scuola. Lo stesso istituto dalla quale la giovane veniva prelevata per essere portata nella casa nella disponibilità del clan Iamonte, per essere violentata e poi costretta pure a rifare il letto. Molti non vogliono parlare, altri ci dicono a chiare lettere: «Non siamo tutti mafiosi», altri ancora provano vergogna, qualcuno piange. Altri ci confidano che, per essere presenti, hanno dovuto superare la reticenza dei familiari. Una comunità che vive il dramma di essere stuprata e stuprante allo stesso momento. Tutto sotto traccia, fino alla
brutta copia di un tema che avrebbe permesso alla madre della giovane violentata di leggere nell’anima della figlia, ma senza trovare il coraggio di denunciare. Alla fiaccolata c’era il primo cittadino, che ha deciso di tergiversare. «Bisogna guardare al futuro, facendo tesoro degli errori». Non una parola però sul futuro, sugli investimenti, sugli spazi aggregativi e sulle azioni a favore dei giovani che subiscono – senza alternative – il fascino della ’ndrangheta. «Ci sono altri casi di violenza, raccolti in confessione – confida don Benvenuto – ed anche episodi di prostituzione giovanile». Poi c’è l’altra fiammella di speranza, oltre a quelle accese dalle candele in marcia. È quella del padre e del fratello della minorenne che sono, come sottolinea il coordinatore regionale di Libera Calabria, don Ennio Stamile, «un’importante testimonianza di chi, pur segnato dalla sofferenza, ha saputo reagire». Così come dovrà fare Melito da domani, da quando i riflettori si abbasseranno e sarà più facile voltarsi dall’altra parte.
"L’altro giorno sono andato a casa della giovane per incoraggiarla ad andare avanti. Ho trovato una famiglia distrutta ma con la volontà di riprendere il cammino nonostante le difficoltà che dovranno affrontare”. Lo ha detto l’arcivescovo di Reggio Calabria-Bova,
monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, in un’intervista al Tg2000, il telegiornale di Tv2000. “Parlare di omertà – ha aggiunto l’arcivescovo - è solo una lettura parziale dell’episodio e forse è anche troppo comodo. Ridurre tutta la vicenda solo ad un fatto di ‘Ndrangheta e di gente che non parla perchè ha paura mi sembra troppo riduttivo. In questo paese è esplosa una realtà che vive nel sottobosco: cioè il modo con cui questi ragazzi vengono educati alla sessualità che viene vista come gioco e divertimento”. Ai componenti del branco che hanno compiuto le violenze, ha concluso monsignor Morosini, “ho mandato a dire attraverso il cappellano delle carceri che devono ripensare non solo a ciò che hanno fatto ma globalmente alle loro vite perché non so fino a che punto hanno percepito il male fatto”.