L'intervista. De Lucia: «La mafia non è finita: tutti uniti e più risorse»
Il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia
Lo Stato non si è fermato a Palermo, quella mattina del 16 gennaio 2023 in cui è stato catturato il latitante più pericoloso di Cosa nostra. «L’arresto di Matteo Messina Denaro era un dovere per le istituzioni», spiega oggi il procuratore Maurizio de Lucia, che di quell’operazione fu il regista. «La mafia non è finita allora, d’altra parte 160 anni di storia non si possono chiudere in poche settimane. Però siamo riusciti a indebolirla e abbiamo in testa una strategia chiara per continuare a colpirla, perché questa volta sappiamo dove i clan vogliono andare». La capacità del crimine di mimetizzarsi, di creare legami pericolosi e insondabili, di inabissarsi per poi riapparire improvvisamente, è ciò che maggiormente preoccupa. «Se vogliamo continuare a contrastare con efficacia i loro piani, ogni cosa deve funzionare. La macchina della giustizia ha bisogno di maggiore personale e di maggiori risorse» sottolinea ad Avvenire il magistrato che guida la Procura del capoluogo siciliano.
Procuratore de Lucia, l’arresto di Messina Denaro ha segnato una linea di confine, un prima e un dopo, nella lotta alla mafia. Cosa è accaduto da allora?
Non ci siamo mai fermati. Diversi soggetti sono stati individuati e posti in custodia cautelare. Altre indagini sono in corso e riguardano l’organizzazione di Cosa nostra nel Trapanese, con il coinvolgimento di altri soggetti riferibili all’area di influenza dello stesso Messina Denaro. Sono stati tanti i processi conclusi e le indagini che hanno portato alla cattura di esponenti mafiosi. Oggi magistratura e forze dell’ordine sono in grado di individuare gli associati mano mano che assumono posizioni più rilevanti. Attenzione, però: Cosa nostra per continuare a esistere ha bisogno di un vertice e ora non ce l’ha più. Ha la necessità di dare ordine a quello che succede nelle città, per questo tende a una ristrutturazione costante della sua organizzazione, con un obiettivo su tutti: tornare a essere ricca, ad avere risorse, per riuscire a riacquistare forza sul piano militare e politico, ridiventando così un punto di riferimento per quella che viene chiamata la borghesia mafiosa. Perciò dobbiamo perseguire non solo i mafiosi, ma anche i patrimoni dei mafiosi.
Il boss mafioso Matteo Messina Denaro dopo la cattura - ANSA
Come si finanzia oggi Cosa nostra?
Registriamo un forte interesse verso il traffico degli stupefacenti. Le cosche stanno cercando di reperire fondi dal mercato della droga e per questo hanno iniziato a lavorare con l’organizzazione che da trent’anni ha il monopolio del settore: la ‘ndrangheta. Da una posizione servente, di collaborazione, Cosa nostra vuole diventare socio di minoranza in business come questi, che sono largamente i più redditizi. Può spendere il suo brand, che esercita ancora un forte richiamo soprattutto verso i cartelli del narcotraffico sudamericano, e insieme ha a disposizione un mercato importante come la Sicilia, dove la cocaina è richiesta anche nei palazzi delle famiglie del ceto medio.
Nel libro “La cattura”, che ha scritto per Feltrinelli con Salvo Palazzolo, lei cita tra gli altri un vecchio capomafia, Nino Rotolo, intercettato nel 2005, quando dichiarava: “Noi campiamo per il popolino”. A che punto è l’erosione del consenso sul territorio per la mafia, soprattutto al Sud?
Quelle parole, così come ha poi dimostrato in questi mesi l’inchiesta sulla rete che proteggeva Messina Denaro, dimostrano che superare la soglia dell’omertà in determinati territori resta estremamente difficile: c’è gente che è abituata a ragionare con la mafia, c’è chi è indifferente e fa finta di non vedere, chi infine riesce ad opporsi. Poi abbiamo esempi luminosi come quello di don Pino Puglisi, che ha sacrificato la sua vita per difendere i ragazzi dalla trappola dei clan. Penso che paura, connivenza e convivenza si superino solo con due fattori: sviluppo economico e sviluppo culturale, che però devono camminare uno insieme all’altro. L’impegno dei giovani di Addiopizzo è un segnale, ad esempio. Dal punto di vista invece dell’impatto sull’opinione pubblica, la risposta più importante data dallo Stato alla mafia è stata senza dubbio il maxiprocesso, un fatto che ha segnato la storia di questo Paese e che è costato la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
In questi giorni è riemersa una fotografia, quella di Messina Denaro e Giuseppe Graviano in platea al “Maurizio Costanzo Show”. Che impressione le ha fatto?
Quella foto (un frame di un video) in realtà era nota agli investigatori da molto tempo. Ma il vero volto dei due mafiosi ritratti è quello che emerge da anni di processi e dalle sentenze che li hanno condannati . Certo, la cattura di un superboss che non era il capo dei capi, ma una persona così carismatica da dettare le strategie seppur malato, non basta oggi per dire che si sia messa per sempre una pietra sopra la stagione della mafia stragista, il biennio terribile 1992-1993. Le Procure di Caltanissetta e di Firenze, coordinate dal Procuratore nazionale antimafia Melillo, su quel periodo continuano a indagare. Il lavoro non è finito.
Cosa serve adesso?
In terra di mafia, Procure e Tribunali distrettuali non possono concedere vantaggi alle strutture criminali. Eppure, in un settore fondamentale della nostra vita pubblica come la giustizia, mancano persone e mancano risorse. Tutti gli uffici giudiziari italiani hanno organici inferiori a quel che sarebbe necessario. La Procura di Palermo ad esempio dovrebbe avere 61 pubblici ministeri, ma ne abbiamo soltanto 47. Quattordici pm sono tanti, se si pensa che con le nostre forze copriamo le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Come Dda del capoluogo siciliano, in questi giorni, abbiamo deciso di mettere a concorso due dei 13 posti mancanti, ma si tratta sempre di strumenti d’emergenza. Lo stesso vale per le procedure avviate per assumere i nuovi magistrati in tutta Italia. Sono in corso concorsi per 500 posti e ne sono assai opportunamente previsti altri: benissimo, ma entreranno in servizio solo tra qualche anno. Nel frattempo, cosa si fa? Per combattere contro un nemico senza scrupoli, tutto deve funzionare. Invece scontiamo tanti errori fatti in passato. Non servono, ad esempio, più tribunali, ma tribunali attrezzati.
Collaboratori di giustizia e intercettazioni restano strumenti indispensabili.
Certamente. Teniamo alta la guardia, ma devo dire che su questi fronti arrivano segnali confortanti. Le intercettazioni ci hanno permesso di conoscere le dinamiche più riservate dei clan, il 41 bis è prezioso per impedire che i capimafia continuino a comunicare con l’esterno. Non è purtroppo saltato il tappo di tutte le connivenze e di tutti gli affari illeciti trattati dai boss, in realtà economicamente depresse. Figurarsi laddove c’è ricchezza. Dove ci sono tanti soldi, c’è tanta mafia: si fanno pochi omicidi e molti affari. Pensi al Nord Italia: Luciano Liggio venne arrestato a Milano nel 1974, a testimonianza del fatto che la presenza mafiosa anche nelle grandi città settentrionali non è mai mancata, soprattutto nei posti dove è possibile confondere i profitti illeciti con altre ricchezze. Per questo, guardiamo con grande attenzione all’arrivo dei fondi del Pnrr: Cosa nostra ha tutto l’interesse a entrare nel business dei cantieri e noi dovremo vigilare, in particolare sui subappalti. Servono controlli preventivi, indagini a tappeto. Poi toccherà agli imprenditori e alla società civile muoversi: la mobilitazione positiva degli ultimi mesi deve continuare.