Gli occhi erano tutti per loro. Inevitabile, anche visto il numero ridottissimo (7) dei leghisti ieri presenti, alla Camera, per la cerimonia sui 150 anni dell’Unità. Ogni loro gesto è stato passato al setaccio, da Umberto Bossi che - in piedi mentre risuonava l’inno di Mameli - ha scambiato qualche battuta con l’"amico ministro" Giulio Tremonti (e intanto, in mezzo ai due, Berlusconi continuava a canticchiare) a Roberto Calderoli che non si è seduto, anche per carenza di posti, ai banchi del governo, ma agli scranni della Lega rimasti vuoti (per riempirli sono stati fatti sedere degli ospiti), per poi uscire scuro in volto a fine celebrazione. Ma anche gli applausi finali per Napolitano: «Ha fatto un buon discorso, lui è una garanzia», ha commentato Bossi, imitato da Maroni.Sono stati 7 gli esponenti del Carroccio che si sono presentati. Forse anche troppi per il leader Bossi, che ha subito ridimensionato le polemiche sui ranghi ridotti della delegazione verde con un perentorio «invece ci sono io...». Presente pure il titolare del Viminale, Roberto Maroni, arrivato per primo ma rimasto defilato per tutto il tempo. Poi due sottosegretari, Sonia Viale (Economia) e Michelino Davico (Interno), e solo due deputati "semplici", Fogliato e Allasia. Pochi? O più del previsto? Qualcuno l’ha chiesto allo stesso Napolitano, che ha accennato di non dare importanza alla questione: «Non ho fatto il conto, chiedete a loro».Sulla Lega si sono rincorse così per tutto il giorno altre dosi di polemica. A partire da Pier Luigi Bersani: «Non è obbligatorio, non lo ordina il dottore di stare al governo – ha attaccato il segretario del Pd –. Ma se uno ha giurato sulla Costituzione e sulla bandiera deve essere coerente o altrimenti va a casa. E di questo deve rendere conto il capo del governo. Serve un minimo di coerenza e di dignità». Infastidito anche il ministro della Difesa: «Stiamo parlando troppo della Lega», ha liquidato il caso Ignazio La Russa.Poche presenze insomma, quelle leghiste, ma decisamente ingombranti. Anche fisicamente per un Antonio Di Pietro che, in pieno Transatlantico, ha rischiato di essere travolto dal gruppone di giornalisti che circondava Bossi: «Famme scappa’ di qua...», si è fatto sfuggire il leader dell’Idv, prima di commentare che i comportamenti di Berlusconi e dei suoi in questo giorno di festa sono la prova che «siamo alla fine di un regime». A incrociare per primo Bossi e Calderoli era stato Maurizio Gasparri: «Umberto, anche tu qui? Come mai?», aveva scherzato il capogruppo Pdl del Senato prima di battere il palmo della mano sul pugno destro dell’Umberto e mimare di esserne travolto. Quello stesso pugno che poi, in aula, il ministro delle Riforme ha battuto sul banco per sottolineare i passaggi di Napolitano sul Papa, sui militari all’estero e sulle Regioni. Un giornalista gli ha mostrato una coccarda tricolore, chiedendogli se l’avrebbe messa: «Calderoli è l’uomo delle coccarde, io le uso solo a Natale...», è stata la risposta. Qualcosa addosso, tuttavia, anche Bossi ce l’aveva. E ricordava un altro, di tricolore: una spilletta con lo shamrock, il trifoglio simbolo dell’Irlanda. «Non dimentico i miei amici irlandesi», ha commentato Bossi (ieri, 17 marzo, era la festa di San Patrizio, patrono d’Irlanda). Segno che, quando vuole, la memoria del leader leghista è molto buona.