Usa. La guerra commerciale di Trump: dazi per tutti, all'Europa del 20%
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Il presidente Usa, Donald Trump, spiega i nuovi dazi nel "Rose Garden" della Casa Bianca
La «dichiarazione d’indipendenza economica americana», come l’ha definita Donald Trump, non ha portato la chiarezza né la moderazione sperate da buona parte del mondo degli affari americano e dai partner commerciali degli Stati Uniti, introducendo un puzzle di tariffe specifiche, Paese per Paese. Il presidente Usa ha infatti firmato uno «storico ordine esecutivo — ha detto — che istituisce dazi reciproci» e sottolineato che «significa che loro lo fanno a noi e noi lo facciamo a loro». Dopo aver sostenuto con toni enfatici che «il 2 aprile 2025 sarà per sempre il giorno in cui l’industria americana è rinata e abbiamo cominciato a rendere l’America di nuovo ricca», il tycoon ha confermato che oggi scatteranno i balzelli del 25% su tutte le auto costruite all’estero che aveva già annunciato la scorsa settimana. Quindi ha spiegato che le nuove tasse sulle importazioni saranno calcolate sulla base di quanto i Paesi stranieri «hanno rubato i nostri posti di lavoro e distrutto il sogno americano». Sulla base di un cartellone tenuto in mano da Trump nel Rose garden, la Cina si vedrà dunque imposte tariffe del 34%, l’Unione europea del 20%. Il Giappone del 24%, il Regno Uniti del 10%. Le percentuali variavano da 10 al 50%. Non era chiaro quanto gli Usa affibbieranno al Canada.
Alla fine, dunque, il «Liberation Day» proclamato da Trump per settimane si è trasformato in un giorno di preoccupazione per moltissimi produttori, distributori e consumatori americani, mentre le nazioni colpite si affrettavano a elaborare strategie per rispondere alla storica bordata di tariffe dell’Amministrazione repubblicana.
Dai fabbricanti di tubi ai concessionari di auto, dagli importatori di legname dal Canada ai grandi trasportatori, infatti, la maggior parte del mondo del business a stelle e strisce ha espresso nei giorni scorsi una forte ansia nei confronti di tariffe commerciali che vedono destinate ad aumentare i prezzi e a scatenare un’ondata di dazi di rappresaglia da parte dei Paesi importatori del made in Usa. Nell’ultima settimana la Casa Bianca ha ricevuto ben 750 lettere o commenti sulla decisione del presidente Usa di alzare barriere protezionistiche imponendo nuovi, elevati balzelli alle importazioni. La maggior parte esprimevano malcontento, anche se non sono mancate associazioni di categoria, soprattutto nell’ambito agricolo, della pesca e della manifattura che hanno condiviso la loro soddisfazione.
La più frustrata è l’industria dell’auto, che dipende da parti costruite in larghissima percentuale in Canada o in Messico. Due gruppi imprenditoriali del Michigan hanno esortato con urgenza Trump a fermare le tariffe del 25% su veicoli e componenti importati che ha già annunciato e che devono entrate in vigore oggi, assicurando che avrebbero portato a una grave crisi economica nello Stato americano che dipende dalle fabbriche automobilistiche. «I costi aumentati causerebbero notevoli interruzioni lungo tutta la catena di fornitura il cui adeguamento richiede spesso anni, non settimane e, forse più importante, porterebbero a significativi aumenti dei prezzi per i consumatori americani», hanno scritto la Detroit Regional Chamber e la MichAuto.
Intanto la Camera di commercio degli Stati Uniti informava l’Amministrazione che i dazi previsti «non hanno precedenti, sconvolgeranno le catene di approvvigionamento e non faranno altro che aumentare il costo della vita per gli americani». Gli economisti hanno quantificato che tariffe medie del 20% costringeranno le famiglie americane a pagare dai 4mila ai 5mila dollari in più all’anno per le spese di base.
L’effetto sarebbe a catena, riducendo i consumi, gli investimenti delle imprese e le assunzioni, tanto che, secondo Moody’s, se tariffe permanenti entrassero in vigore nel trimestre in corso, l’economia americana precipiterebbe quasi immediatamente in una recessione che durerebbe più di un anno, portando il tasso di disoccupazione sopra il 7%. I rivenditori sono in allarme: «L'implementazione di tariffe cumulate ha portato a una crescente confusione — ha detto Blake Harden, vicepresidente della Retail Industry Leaders Association —. Le aziende non hanno avuto il tempo, la certezza e la guida adeguati per incorporare questi cambiamenti».
I dazi di Trump - -
Non sorprende allora che la Consumer Brands Association, gruppo di categoria che rappresenta circa 90 marchi come Coca-Cola, Procter & Gamble e Clorox, ha scritto alla Casa Bianca che «l’attuale approccio deve essere adattato per riflettere la realtà nei mercati delle materie prime». Pur senza opporsi a una revisione dei dazi tout court, l’associazione ha spiegato che «le catene di fornitura sono incredibilmente sfruttate, i costi di produzione e degli ingredienti sono già alti e i consumatori sono preoccupati». A differenza della guerra commerciale lanciata da Trump durante il suo primo mandato, dunque, «non c'è margine dove assorbire l’effetto di dazi elevati. I prezzi dovranno aumentare». La Casa Bianca ha finora deriso avvertimenti come questo, sostenendo che le previsioni pessimistiche si sono rivelate sbagliate quando Trump ha imposto dazi (in realtà ben più modesti) nel 2018.
Il nuovo piano tariffario di Trump ieri ha tenuto con il fiato sospeso anche l'industria del trasporto marittimo, preoccupata che la guerra commerciale frenerà la domanda di movimento di container. Le principali compagnie mondiali come Msc, Maersk e Hapag-Lloyd hanno manifestato le loro perplessità all’Amministrazione e al Congresso. E quest’ultimo, a sorpresa, ha risposto. Alcuni senatori americani hanno proposto una risoluzione che porrebbe fine alla dichiarazione di emergenza che consente l'imposizione di tariffe contro il Canada. Se la misura sembra avere abbastanza voti repubblicani per essere approvata dal Senato, sicuramente sarà fermata dalla Camera.
Intanto le rimostranze si moltiplicano anche dall’estero. Il Canada ha richiesto consultazioni su «tariffe ingiustificate» presso l'Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Il 5 febbraio Pechino aveva formalmente avviato una controversia presso lo stesso Wto in merito a una tariffa del 10% imposta allora da Trump sui prodotti cinesi.