Editoriale. La grande fuga dall’Italia. Se a migrare siamo noi
«Vattinni! Chista è terra maligna...», diceva il vecchio siciliano al giovane protagonista, in una delle scene più significative di “Nuovo Cinema Paradiso”, il film di Giuseppe Tornatore premio Oscar nel 1990. Quella frase, calata nel ricordo di un passato ricco di sogni ma avaro di speranze, interpretava con onestà drammatica un sentimento diffuso e radicato in gran parte del meridione italiano. La domanda che dovremmo porci oggi è se nel tempo che ci separa dagli anni delle grandi migrazioni interne l’Italia, anziché colmare il divario di sviluppo, non sia diventata, lentamente e inconsapevolmente, un unico grande Sud.
Da questo punto di vista il rapporto della Fondazione Migrantes dedicato agli italiani all’estero qualche preoccupazione la dovrebbe sollevare. Oggi rispetto al 2006 - che simbolicamente possiamo considerare l’anno che precede lo scoppio della Grande Crisi, e non solo quello in cui l’Italia ha vinto l’ultimo Mondiale di calcio – gli italiani che vivono in un altro Paese sono raddoppiati. Fin qui niente di male. Così come non andrebbero valutati negativamente altri aspetti, come il fatto che quasi la metà di chi è all’estero ha tra i 18 e i 49 anni, o che il 44% di chi è espatriato nel 2022 ha dai 18 ai 34 anni, e che il deflusso di giovani è in aumento, e poi che queste uscite stiano spopolando ancora una volta soprattutto il Sud.
Di cosa avere paura? I giovani si muovono, fanno esperienza, acquisiscono competenze. E come se ne vanno possono ritornare. Ma, ecco, è qui che nascono i primi dubbi. Perché la differenza tra una migrazione temporanea, una scelta di vita e una fuga è molto sottile.
Il dubbio può essere chiarito ponendosi una semplice domanda: se un bambino che nasce oggi, un adolescente o una persona che ancora si sta formando si mettessero a ragionare secondo la logica di un investitore finanziario, punterebbero le loro chances sull’Italia?
La risposta solleva non poche inquietudini: i fondamentali del Paese e le sue prospettive non sono incoraggianti. Da un punto di vista demografico sappiamo già che nel 2030 le persone con più di 65 anni saranno il 27% della popolazione e che nel 2040 con tutta probabilità diventeranno una ogni tre abitanti. Attualmente ci sono tre persone in età da lavoro ogni due inattivi, cioè bambini o pensionati, e questo rapporto sarà di uno a uno entro il 2050. Quando scriviamo, a ogni nuovo rapporto sulla popolazione, che il declino demografico comprometterà la sostenibilità del sistema di welfare, significa semplicemente che in assenza di uno stravolgimento positivo, tra qualche anno, non ci saranno abbastanza italiani per pagare tasse che già oggi a malapena finanziano il sistema sanitario e quello previdenziale.
La narrazione negativa è ricca di rapporti e classifiche che relegano l’Italia agli ultimi posti tra i Grandi (perché comunque restiamo tra i big, va ricordato): dai tassi di occupazione maschile e femminile al numero di giovani che non studiano e non lavorano, dal numero di laureati agli indici di produttività, dal potere d’acquisto dei salari alle competenze del suo capitale umano. E ciò che contribuisce a oscurare l’orizzonte sono le storie, vere o verosimili, di chi se ne è andato, ricche di testimonianze di come nei migliori Paesi sia facile trovare un lavoro anche in assenza di sostegni familiari, essere responsabilizzati e pagati il giusto e non in nero, poter contare su un welfare che non ostacola i progetti familiari, avere la percezione che la fiscalità premia l’impegno e non la rendita.
Si tratta soltanto di invertire un racconto alterato? Certamente è anche questo. Ma si tratta di un’operazione che va compiuta provando a ragionare diversamente rispetto alla logica di un fondo di investimento speculativo, bensì nella convinzione che il proprio Paese possa produrre le riforme e lo sviluppo che si merita, proprio perché siamo i primi a crederci, nella consapevolezza che si tratta di una sfida personale e collettiva. L’Italia non è una “terra maligna”, la scelta della migrazione deve continuare a essere un’opportunità, un percorso di arricchimento, e di impegno costante, così che partire non sia mai scappare e ritornare non diventi una sconfitta. Per chi esce e per chi arriva.