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Ucraina. La famiglia in fuga con 11 figli adottivi. «Il nostro sogno è tornare a casa»

Francesca Ghirardelli, Ivano-Frankivsk ( Ucraina) venerdì 1 aprile 2022

Olena, il marito Valery e i figli adottivi nel monastero di St. Joseph, a Ivano-Frankivsk

Sotto un mobile basso di legno, dodici paia di ciabatte sono sistemate in fila. Nella grande stanza del monastero greco-cattolico di St. Joseph a Ivano-Frankivsk, il numero di cuscini lascia indovinare che diversi letti sono usati in condivisione. In questa città dell’Ucraina occidentale, più sicura e tranquilla rispetto all’est del Paese, insieme a molti altri sfollati è stata accolta una famiglia speciale, quella di Olena Shelupet e di suo marito Valeriy, con i loro undici figli, tutti presi in adozione. Hanno tra i 6 e i 17 anni, quattro di loro con disabilità. Fuggire dalla violenza di una guerra richiede a tutti qui uno sforzo carico di incognite e di rischi. Farlo insieme a così tanti figli da accudire, è un’impresa straordinaria.

«Abbiamo tentato di abbandonare Kharkiv per tre volte, ma all’inizio non è stato possibile per i bombardamenti continui» ci racconta Olena, con un sorriso che quasi subito lascia il posto all’emozione, il viso e gli occhi arrossati. «Nei momenti iniziali dell’aggressione non capivamo cosa stesse accadendo. Guardavamo fuori senza comprendere perché porte e finestre tremassero, perché ci fossero scoppi e il fuoco. Pensavamo a un incendio e ci pareva che qualcuno volesse sfondare la porta». Lei e il marito non potevano credere che a sorprenderli a Kharkiv fosse davvero la guerra. L’avevano già vista nel 2014 a Slovyansk, la loro città d’origine nel Donbass. «Abbiamo trascorso molto tempo giù nel rifugio.

La nostra principale occupazione là sotto era evitare di mostrarci spaventati ai bambini, in modo che non lo fossero nemmeno loro» confida. «Ci si adatta presto alle condizioni in cui si è costretti a vivere, ma questo non vale per i più piccoli, per loro è complicato. Ci sembrava di sentire il rumore delle esplosioni provenire da ogni direzione. Ogni fruscio era un brivido». Attacchi di panico a ogni aereo di passaggio, a ogni sirena che scattava.

Una delle bambine aveva la febbre alta per lo stress. «Dal momento che la nostra famiglia è così numerosa, nella dispensa conserviamo sempre grandi scorte di cibo. Così abbiamo dato una mano ai vicini più anziani, cucinando per loro». Dal 2006, anno della prima adozione, con il sostegno dello Stato ucraino, in casa di Olena e Valeriy sono passati ventuno figli, dieci dei quali ormai adulti. Due fanno parte adesso delle forze di difesa regionale di Kiev. Quando la nuova ondata di terrore è iniziata, il 24 febbraio, Valeriy si trovava in ospedale per problemi cardiaci. «Ha interrotto le cure ed è tornato da noi. Prima di quella data, avevamo figli in prima elementare, altri che si preparavano al diploma, e Christina, la maggiore, che sognava di diventare una stilista.

L’avevamo portata a imparare il mestiere da una sarta. In un giorno la vita di tutti è cambiata». Durante l’evacuazione, organizzata da un gruppo di volontari, altri quattordici bambini si sono uniti al convoglio. «Quindi avevamo con noi venticinque minori. Nella fuga ero così spaventata da perdere la sensibilità alle mani. Quando abbiamo raggiunto il fiume Dnepr, un soldato ucraino ci ha detto che eravamo salvi. Abbiamo cominciato a piangere ». La famiglia di Olena è stata accolta, a quel punto, dalla chiesa greco-cattolica di Ivano-Frankivsk. «Finora abbiamo ospitato 150 persone, tra cui famiglie numerose e un gruppo di mogli di soldati» ci spiega Padre Ivan, all’ingresso del monastero. «C’è chi è con noi da un mese e chi dopo un paio di notti prosegue il viaggio». Ben coordinata ed efficiente, l’accoglienza degli sfollati provenienti dall’Est in questa città ha visto uno sforzo congiunto di autorità locali, istituti religiosi e di un gran numero di cittadini che si sono mobilitati.

La municipalità ha attrezzato gli spazi pubblici con migliaia di posti letto, dormitori universitari, asili e ventinove scuole sulle quarantadue esistenti in città. Qualche giorno dopo il nostro incontro al monastero, ricontattiamo Olena. La famiglia ha raggiunto il centro di Chernivtsi, quasi al confine con la Romania. «Continuiamo a spostarci, dal Dnepr, a Ivano-Frankivsk, fino qui. Andiamo e andiamo, ci muoviamo, non sappiamo verso dove. Eppure vorremmo solo tornare a casa. Vorremmo solo, come tutti, che tornasse la pace».