Gli ospiti. Medici-deputati sulle «Dat»: la coscienza e la legge
Caro direttore,
vi sono aspetti della legge in discussione su consenso informato e Dat che, prima ancora che in quanto parlamentari, ci interpellano come medici. La libertà di esercitare la professione in scienza e coscienza è quanto distingue una medico da un tecnico alle dipendenze delle autorità sanitarie o da un esecutore cieco della volontà del paziente che gli si è affidato. Se non interverranno modifiche al Senato, questa libertà è oggi violata dal comma 7 dell’articolo 1 della nuova legge. La versione approvata dalla Camera prevede infatti che «il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo».
Non solo, nella consapevolezza che la supina acquiescenza alla volontà del paziente potrebbe costringere il medico a compiere reati, il legislatore si è preoccupato di precisare che «in conseguenza di ciò [il medico] è esente da responsabilità civile o penale». Si evita così che il medico possa incorrere in reati quali l’omicidio del consenziente (art. 579 Codice penale) e l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580). Resta tuttavia la mostruosità della pretesa di poter costringere un medico a togliere a un suo paziente una cannula o una flebo, sapendo che la sua azione affretterà la morte del malato, non già a causa della sua malattia, ma per denutrizione e disidratazione. Secondo i sostenitori della legge, la coscienza del medico sarebbe sufficientemente tutelata dal successivo periodo dello stesso comma, faticosamente introdotto come benevola concessione durante l’esame in Commissione, con cui si stabilisce che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinicoassistenziali».
Esigere trattamenti, tuttavia, è cosa ben diversa dal rifiutare trattamenti. Come ben chiarito durante la discussione, quest’aggiunta non intacca il diritto del paziente di rifiutare i trattamenti e di essere aiutato a morire di inedia, ma solo la richiesta di trattamenti fuori legge. Blocca dunque le richieste di eutanasia attiva, ma non omissiva; blocca anche la pretesa di farmaci di efficacia non provata e non autorizzati, tipiche della medicina dei desideri, ma non certo quella di staccare una cannula sapendo che questo gesto causerà la morte inevitabile del paziente.
È accettabile tutto questo senza rendere profondamente asimmetrico il rapporto medico-paziente e senza compromettere la relazione di cura? È accettabile, se non operando uno stravolgimento della natura stessa della professione medica e della vocazione di cura delle strutture sanitarie? Per quanto riguarda queste ultime, poi, le proposte di modifica al comma 10 sono state per ora accantonate, ma se non interverranno ripensamenti, resterà l’obbligo per esse di garantire la piena attuazione della legge. Si tratta di un obbligo che riguarda dichiaratamente anche le strutture private, comprese quelle cattoliche.
Alcune di queste sono nate secoli prima che lo stato si occupasse di assistenza sanitaria, proprio per umanizzare la medicina e sottrarre i pazienti all’abbandono terapeutico. Anch’esse si troverebbero costrette ad assecondare eventuali richieste di affrettare la morte attraverso la sospensione dei sostegni vitali. Se vogliono che ciò non accada è bene che fin d’ora facciano sentire la propria voce, prima che sia troppo tardi. Da parte nostra vigileremo affinché il rispetto delle finalità istitutive e delle carte dei valori degli ospedali e delle case di cura cattoliche non passi attraverso il ricatto economico, sospendendo a quanti non si adeguano le convenzioni attraverso cui si riconosce il loro ruolo pubblico all’interno del servizio sanitario nazionale. Nemmeno quando fu approvata la legge 194 che legalizzava l’aborto si è arrivati a tanto. C’è ancora spazio in Italia per la coscienza dei medici e delle strutture sanitarie?
* medici e deputati