«Strangolata dalla burocrazia e uccisa dagli impegni sottoscritti dalle istituzioni e mai mantenuti, "Casa Dago" sta per chiudere i battenti». Così inizia la lettera-appello indirizzata alla Regione Lazio da ben 37 associazioni di famiglie con pazienti in stato vegetativo, con trauma cranico e gravi cerebrolesioni acquisite: praticamente tutte quelle operative nel nostro Paese. L’alta adesione e i toni drammatici spiegano bene l’urgenza dell’appello: Casa Dago, infatti, è l’unica struttura esistente in Italia per il reinserimento familiare, sociale e lavorativo delle persone riabilitate dopo un coma, e altrettanto unico è il progetto sociale che vi si opera all’interno grazie all’associazione Arco ’92. «Gli operatori non percepiscono retribuzione da un anno e mezzo, l’ultimo pagamento dalla Asl Rm C, che secondo gli accordi dovrebbe essere regolato a trimestri anticipati, risale al settembre 2010», fanno sapere da Casa Dago. Così nel frattempo i debiti sono cresciuti a valanga, le banche sollecitano i pagamenti con tanto di interessi, l’Inps manda multe per ritardati pagamenti e, ironia della sorte, ora si è fatta sentire anche Equitalia, mentre - dal 28 febbraio 2012 - è anche scaduto il contratto con gli operatori, gli stessi non stipendiati dal settembre 2010, ai quali naturalmente non è stato rinnovato. Restano invece al loro posto, bisognosi di tutto, gli ottanta pazienti - tra interni ed esterni - che quotidianamente da Casa Dago dipendono proprio per riprendere quella vita che, nelle varie Giornate dei Risvegli, viene celebrata con grande enfasi e progetti per il futuro. «Qui non abbiamo neanche il presente», ribatte Elena Villa, presidente di Arco ’92 (Associazione per la riabilitazione del comatoso), che lancia un Sos alla Regione per chiedere due cose: il pagamento dei fondi regionali dovuti, e il ritorno del Progetto Dago nell’ambito dell’assessorato ai Servizi sociali anziché dell’assessorato alla Sanità. Particolare non da poco, perché proprio la natura sociale - e non sanitaria - del progetto legittima le attività che vi si svolgono e dunque le spese sostenute: «I nostri pazienti – continua la presidente – sono persone che, conclusa la riabilitazione, mantengono esiti cognitivo-comportamentali o motori gravi, così noi insegnamo alle famiglie la gestione del paziente post comatoso, e trattiamo il paziente stesso con attività riabilitative come reinserimento scolastico, giardinaggio, pittura, pet therapy, visite a musei, gite, cinema, cene di gruppo, ripresa della guida automobilistica...». Non sono hobby: è la vita che riprende. O riprendeva, quando i quindici dipendenti c’erano ancora. «Adesso andiamo avanti solo grazie a volontari». Un po’ poco, per una struttura unica in Italia... Questo il percorso che, secondo gli accordi, i fondi dovrebbero seguire: la Regione li dà all’Asl, che paga il canone d’affitto e le utenze, e passa 53mila euro a trimestri anticipati a Casa Dago per stipendi e attività. Ma i controlli sulle fatture presentate da Casa Dago all’Asl hanno "rallentato" i pagamenti, al punto da bloccarli del tutto. «Non è bastato nemmeno sottostare a una serie di tagli – sostiene la presidente –: per l’ultimo trimestre 2010 anziché 53mila euro ce ne hanno concessi 20mila... ma nemmeno quelli abbiamo visto. Poi per tutto il 2011 sono stati stanziati 200mila euro, infine ridotti a soli 100mila... mai arrivati».Inutile per tutto il giorno chiedere di parlare con gli amministratori regionali: "La struttura non rischia la chiusura – ci assicura solo a sera con una nota scritta l’assessorato alla Salute del Lazio, che non accetta colloquio verbale –, i problemi finanziari sono riconducibili a delle anomalie contabili che richiedono un approfondimento da parte della Asl". Così complesso da richiedere anni. "L’assessorato sta lavorando per risolvere le criticità finanziarie di Casa Dago", continua la nota, che non spiega l’ottimismo per cui "la struttura non rischia di chiudere" e nemmeno come potrà tirare avanti senza un solo dipendente, ma garantisce che "strutture come Casa Dago godono della massima attenzione da parte di questa amministrazione, che tra gli altri impegni sta lavorando alacremente per cercare di trovarle spazi più idonei per la presa in carico dei pazienti". Nel frattempo le 37 associazioni firmatarie dell’appello – riunite in Fnatc, La Rete, Vi.Ve. e Anbi (Associazione nazionale biogiuristi italiani) – si dichiarano «solidali e compatte, pronte a scendere sul piede di guerra».