Intervista. Iannantuoni: «L'Università torni al centro dell'agenda»
La presidente della Crui, Giovanna Iannantuoni
Un’università a servizio del Paese per la crescita del nostro sistema, culturale scientifico e sociale. È questa la visione della presidente della Conferenza dei rettori italiani (Crui), Giovanna Iannantuoni, rettrice di Milano-Bicocca, che per oggi e domani ha convocato alla Camera, gli Stati generali dell’Università sul tema, impegnativo: Per un futuro di prosperità e cittadinanza attiva.
Presidente, il dibattito più recente sull’università italiana si è concentrato sul fatto che, secondo l’ultimo rapporto Piaac dell’Ocse, un laureato italiano ottiene punteggi peggiori di un diplomato finlandese: è davvero così?
Mi sembra una provocazione. Andrei piuttosto a sottolineare le cose positive del rapporto e le criticità che devono essere da stimolo non soltanto per l’università ma per il sistema scolastico nel suo complesso. Una nota molto positiva, correlata con gli Stati generali dell’Università, è il fatto che, a competenze migliori, a livelli di formazione migliori, i ragazzi e le ragazze acquisiscono una formazione più adeguata e una probabilità di avere un’occupazione sopra il 90%, salari più alti e un gender gap praticamente azzerato. Quindi, la prima nota positiva che il rapporto Ocse regala al nostro Paese è la relazione fortissima tra formazione universitaria e qualità della vita. Perché a livelli di competenza più elevati corrisponde un maggiore benessere generale. E questo è molto importante, perché, tra le ragioni che mi hanno spinto a volere questa due giorni romana sull’università, è il fatto che studiare in università – ma studiare in generale – forma l’autonomia critica della persona, la coscienza di sé e del mondo che ci circonda e la libertà di scegliere al meglio per sé stessi e per la propria famiglia. Investire su sé stessi è il binario giusto. Ovviamente, uno dei problemi annosi del nostro Paese è il numero basso di laureati. Negli ultimi dieci anni siamo migliorati, passando dal 20% al 30% della popolazione tra i 25 e i 34 anni, con un aumento del 50%, ma rispetto alla media europea che si avvicina al 40% dobbiamo crescere. Inoltre, l’università rappresenta l’unico ascensore sociale per il nostro Paese. L’ultima indagine Almalaurea ci restituisce un quadro molto chiaro: il 60% dei nostri studenti non ha nessuno dei genitori laureato. Quindi è il primo laureato della propria famiglia. Un dato che arriva a quasi il 70% per le ragazze. Che poi troveranno un lavoro migliore, come ci suggerisce, di nuovo, il rapporto Ocse, con effetti positivi sul proprio futuro. Dal punto di vista dell’investimento sul futuro, quindi, l’università è la scelta giusta per i nostri giovani. Questo è anche il punto di partenza che ci ha fatto pensare a un momento di riflessione sul nostro sistema universitario. Insomma, il Paese che l’ha inventata, si deve chiedere: crediamo nell’università?
Appunto. Nel 1088 a Bologna venne fondata la prima università: quasi mille anni dopo, perché non c’è nemmeno un ateneo italiano tra i primi 100 al mondo?
Non mi soffermerei tanto su questi ranking, quanto sulla qualità della ricerca, che vede l’Italia in ottava posizione al mondo. Le classifiche dipendono anche da variabili come il numero di metri quadri per studente, o il numero di residenze universitarie disponibili. Temi certamente importanti, ma lo è altrettanto la qualità della ricerca e della didattica, che poi sono le ragioni fondanti dell’università. Che vive per la passione dei ricercatori per la scienza, cui si unisce la generosità di trasmettere la conoscenza ai giovani. Così, nonostante in Italia il numero di ricercatori e ricercatrici sia più basso della media europea, il livello di produzione scientifica è tra i più alti al mondo e la qualità media dei ricercatori (per esempio, le citazioni), ci pongono tra i primi al mondo. In sintesi: non buttiamoci troppo giù e leggiamo i dati nella loro interezza.
Ogni anno, il Rapporto Adi ci dice che oltre il 90% dei dottori di ricerca alla fine del contratto viene espulso dall’accademia e cambia lavoro: come frenare questa emorragia, che è anche uno spreco?
I percorsi dei dottori di ricerca, come quelli creati con il Pnrr e il Next generation Eu, non sono pensati esclusivamente per l’accademia, perché abbiamo bisogno di innovazione anche nel settore privato, nella pubblica amministrazione e nelle istituzioni in generale. Dovremo pensare a una valorizzazione dei dottorandi, anche con livelli stipendiali più alti, nel privato e nella pubblica amministrazione. E valorizzare i giovani, prevedendo delle carriere di merito anche in ambito universitario. Ma questo è un discorso che investe l’intero Paese. Dobbiamo davvero ripensare i salari che garantiamo ai nostri ragazzi per trattenerli. A questo proposito, c’è anche un discorso da fare, per esempio, specifico su Medicina. Noi pensiamo di aumentare il numero delle matricole, ma voglio ricordare che, negli ultimi anni, migliaia di giovani medici e infermieri hanno lasciato l’Italia per andare a lavorare all’estero. Dobbiamo comprendere che investire nei giovani non è un costo per il Paese, ma è un investimento, perché il rendimento successivo sarà sicuramente maggiore.
Investire sui giovani significa anche pensare al loro benessere. Nei mesi scorsi il “popolo delle tende” si è accampato fuori dalle università, manifestando il forte disagio degli studenti per la situazione abitativa di tanti di loro: come state affrontando questo problema?
Il movimento delle tende ha avuto senz’altro il merito di mettere al centro il tema delle residenze universitarie, che è diventato prioritario in tutti i Comuni. Ci sono tavoli aperti tra amministrazioni e università e c’è stato questo bando del Ministero dell’Università e della ricerca, finanziato anche dal Pnrr, da oltre un miliardo di euro per 60mila posti letto. Il problema è che noi veniamo da decenni di sottofinanziamento e il numero dei posti letto non è sufficiente rispetto ai due milioni di universitari del nostro sistema. Noi stiamo lavorando in accordo con i privati, per realizzare alloggi che però poi devono prevedere una tariffa agevolata per gli studenti. Che deve essere proporzionale al loro reddito e deve rendere il diritto allo studio, sancito dalla Costituzione, possibile e praticabile. I talenti devono poter investire su sé stessi.
Come affronta l’università le sfide dell’inverno demografico, della competizione globale e dell’Intelligenza artificiale per offrire al Paese la prospettiva di «un futuro di prosperità», come recita il titolo degli Stati generali?
Abbiamo scelto il termine “prosperità”, molto usato dal Nobel per l’Economia di quest’anno, Daron Acemoglu, che sottolinea il ruolo delle istituzioni pubbliche e delle università per il raggiungimento, appunto, della prosperità. Che è un concetto più ampio di quello di ricchezza e indica il benessere a tutto tondo. L’università è il motore non soltanto della crescita economica, ma proprio della prosperità del Paese. In almeno due direzioni. La prima è quella dell’autonomia critica dei nostri studenti. Il sogno che abbiamo è che i nostri ragazzi, al termine del percorso universitario, sviluppino un’autonomia critica che permetta loro di avere coscienza e scienza di sé e del mondo che li circonda. Per prendere decisioni in libertà, coscienza e consapevolezza. Sviluppare l’autonomia critica è, allora, la missione più importante dell’università. Il secondo obiettivo è coltivare la ricerca come motore dell’innovazione tecnologica che permetta alle nostre imprese di stare sul mercato. In un’epoca caratterizzata, purtroppo, dall’inverno demografico, il numero minore di lavoratori sul mercato dovrà essere sempre più competente. Da questo punto di vista, scegliere la qualità, scegliere i campus in presenza dove gli studenti possono conoscersi e fare esperienza di vita tra pari è un valore aggiunto. Anche per queste ragioni, i campus universitari dovrebbero essere davvero al centro dell’agenda politica del nostro Paese.