Alluvione. Nei campi l'apocalisse dell'agricoltura: «Il fango sta soffocando tutto»
La coltre di limo e argilla che ricopre i campi nel Ravennate. In superficie secca, intrappolando sotto l'acqua che per via del caldo fa bollire le radici e le soffoca
Guarda le sue ciliegie, Gianluca Anconelli, e scuote la testa: «Tutto da buttare». Non sono bastati i tendoni antipioggia di ultima generazione, ben tirati sopra i filari di piante: la pioggia di settimana scorsa è caduta come macigni dal cielo, da sopra e di traverso, in più punti ha divelto persino il tessuto, per poi martoriare le foglie e arrivare a piagare i frutti. Non ce n’è uno che non sia segnato o spaccato: «Quest’anno è andata così». Ma quest’anno, e le ciliegie, sono solo l’inizio.
La devastazione dell’alluvione, nelle campagne del Ravennate, non salta agli occhi come sulle strade delle città. Bisogna avvicinarsi, alla terra e alle piante, per vedere l’olocausto botanico del 17 maggio: una coltre di limo e argilla alta 5 centimetri che ha seppellito le radici delle colture per un’estensione di migliaia di ettari e che ora le sta asfissiando, seccandosi in superficie sotto il sole di maggio e intrappolando l’acqua bollente sotto. Per gli agricoltori romagnoli, che l’hanno già ribattezzata “la pellicola di nylon”, è una piaga insanabile: Agrintesa Faenza, un gigante da 4mila associati e 15mila ettari di colture, è in ginocchio e il presidente (alluvionato) Aristide Castellari è convinto che il peggio debba ancora venire «perché è tra 15 giorni che potremo capire se gli alberi e le viti hanno resistito allo choc di quello che è accaduto oppure no. Nel secondo caso, non avremo perso solo il raccolto e gli impianti, ma anche il futuro».
Per mostrare di cosa parlano, Gianluca inforca il furgone e si dirige oltre Barbiano di Cotignola, un altro paese che ha dovuto fare i conti con la rabbia del suo fiume, il Senio (l’acqua l’ha diviso a metà: ovvero, la metà delle case è distrutta, l’altra non ha un graffio). Si ferma accanto a un casolare isolato, lì dove iniziano i suoi campi di bietola da zucchero, e comincia a camminare sprofondando nella melma. Gianluca ha 42 anni, ma l’imprenditore agricolo ha deciso di farlo quand’era un ragazzino, seguendo la passione di suo padre. Ha studiato per coltivare la terra, s’è laureato in Agraria a Faenza e ha costruito sacrificio dopo sacrificio un piccolo capolavoro di imprenditoria agricola 3.0: un bel capannone, 40 ettari di suolo (una parte di proprietà, una parte in affitto), 4 dipendenti, macchinari avanzati.
«Anche per il cambiamento climatico m’ero preparato» racconta, spiegando che i contadini le stagioni hanno cominciato a vederle cambiare sei o sette anni fa, quando ha smesso di nevicare prima, di piovere poi, e sono iniziate primavere asciutte e fredde: «L’alluvione è l’ultima emergenza con cui dobbiamo avere a che fare. Dal 2020 siamo in lotta con le gelate tardive: -6 o -7 gradi nelle mattine d’aprile». Ciò che, senza un impianto anti-brina, distrugge un raccolto: «Costo, 2.500 euro per ettaro, saliti a 6mila dopo la guerra in Ucraina e la botta dell’inflazione». Gianluca li ha spesi per buona parte dei suoi campi e avrebbe voluto completare l’opera a fine stagione: «Ora, con 25mila euro di danni stimati, è impossibile persino sognarlo».
Gianluca Anconelli mostra a che livello è arrivata l'acqua la notte dell'alluvione nel suo vigneto - Daloiso
Ma è la questione del clima che lo agita, si capisce subito: «Sentiamo ripetere in tv e da ogni parte che questi eventi sono straordinari e imprevedibili, che dobbiamo attrezzarci per affrontarli. Noi però siamo già attrezzati, il punto qui è un altro». E mentre guarda sconsolato le bietole che hanno già piegato la testa – «saranno morte in una settimana al massimo, e dovrò anche spender soldi per sradicarle e portarle via» – Gianluca inizia a parlare dei fiumi. L’imprenditore scompare e tocca al presidente della sezione Coldiretti di Cotignola prendere la parola: «Io partecipo al Consiglio provinciale di Ravenna, so di che cosa parlo. Da anni poniamo alle istituzioni il problema della gestione del territorio, chiedendo per esempio che gli agricoltori possano farsi carico della pulizia e della manutenzione degli argini dei tratti fluviali adiacenti ai poderi. Ma niente – continua –, ci dicono di no. I fiumi non si toccano, ripetono, e l’onda ambientalista che spopola a sinistra come a destra decide che i fiumi non devono essere più fiumi, ma foreste, parchi, oasi». Il riferimento, neanche troppo velato, è al vicino Parco fluviale di Castel Bolognese, dove il Senio ha rotto gli argini scatenando un pandemonio tutt’intorno: «Hanno pareggiato gli argini, lì, lasciato che il fiume salisse al livello delle campagne tutte intorno. Hanno fatto piste ciclabili e sentieri e permesso agli animali e agli alberi di crescere liberamente, in nome della tutela della biodiversità. Tutto bellissimo – spiega Gianluca –, ma i fiumi non sono questo. I fiumi sono autostrade per l’acqua, la portano dalla sorgente al mare». Non devono trovare alberi sul loro corso «perché gli alberi rallentano l’acqua e con la corrente possono essere spezzati, trascinati e fare più danni». Non devono scorrere al pari dei campi «ma sotto, con alvei ben dragati e argini rialzati, così che abbiano più spazio per sfogarsi quando piove».
Le ciliegie segnate irrimediabilmente dalla bomba d'acqua, nonostante gli alberi si trovassero sotto le reti di protezione - Daloiso
La ricetta, per lui, è semplice. Anche se qui, adesso, è troppo tardi per realizzarla: bisogna tornare alle bietole da zucchero, da buttare, «che tra l’altro sono solo l’inizio della catena. Perché se quest’anno mancheranno bietole da zucchero, mancherà anche la materia prima essenziale a chi lo zucchero lo produce e così le piante che si sono salvate costeranno di più, le aziende lavoreranno di meno e probabilmente nel giro di sei mesi o un anno lo zucchero sullo scaffale costerà venti centesimi in più per tutti». Così, per far capire che se l’albero cade la foresta non può crescere e che l’alluvione in Romagna è un danno incalcolabile per tutto il Paese.
«Io sono ancora uno di quelli fortunati – continua Gianluca –. La mia casa è nella parte di Barbiano che s’è salvata, l’acqua nel mio capannone non è entrata, le bietole sono una coltura annuale e l’anno prossimo posso ricominciare daccapo». Ora la paura è per la siccità: il Cer, il grande canale artificiale da cui l’Emilia Romagna prende l’acqua raccolta dal Po per irrigare i suoi campi, è fuori uso. L’onda di piena dei fiumi l’ha incrociato perpendicolarmente, le acque sono entrate e uscite, ma hanno trascinato con loro lo stesso fango che soffoca le colture. «Serve svuotare il canale, pulirlo ed evitare che la melma finisca nella rete idrica intasando tutto – spiega Gianluca –. Ci hanno detto che ci vorranno 10 giorni, in 6 o 7 l’acqua che è caduta si asciugherà sul terreno e le piante che si sono salvate avranno sete. Che cosa faremo se ci volesse di più?».