Difesa. L'Europa divisa compra armi da Stati Uniti e Sud Corea: “sprecati” 100 miliardi
Carri armati Usa in Kuwait
Cento miliardi di euro quasi interamente regalati ad americani (63%) e sudcoreani (10%). Con la guerra in Ucraina, gli europei hanno riarmato per quell’ammontare, guardandosi bene dal comprare prodotti continentali. Gli ultimi dati dell’Agenzia europea per la Difesa sono allarmanti: gli approvvigionamenti congiunti di materiali «made in Europe» non superano i 7,9 miliardi di euro, metà circa (18%) di quanto sarebbe necessario per centrare l’obiettivo già poco ambizioso del 35% di infraeuropeità.
Ancora peggio va per la ricerca tecnologica comune: solo il 7% è realizzato in sinergia, uno dei livelli più bassi mai registrato, agli antipodi da quanto concordato in passato (20%). Quella percentuale segna addirittura un’involuzione rispetto al 14% del 2008. Oggi, quasi tutti i soldi dei bilanci militari europei (più di 250 miliardi di euro) si disperdono in acquisti oltreconfine. Un’incongruenza che impoverisce la base del futuro, perché l’industria di settore, se finalizzata a scopi esclusivamente pacifici e difensivi, è un volano. Impiega un 54% di ingegneri e di quadri, un 30% di tecnici e impiegati amministrativi e un 16% di operai. Fa ricerca, foriera di ricchezza e di guadagni in termini di produttività e di innovazione.
Invece la calpestiamo, in un momento in cui le crisi che premono ai confini sono immani, anche a livello tecnologico e industriale. Dovrebbero stimolare i 27 ad adottare un profilo ambizioso, collaborativo e strategico, ma ci si divide su tutto: ci sono 27 agenzie nazionali per gli acquisti d’armi; 27 centri disparati sul cibercrimine; 27 piani per l’intelligenza artificiale e altrettanti per gli studi sull’idrogeno e la quantistica, le frontiere del domani. Si avanza in ordine sparso. Dov’è il mercato unico? Per le armi, i trattati esentano dal metodo comunitario e non impongono nulla. Il conflitto in Ucraina ha interrotto un afflato in itinere, evidenziando fratture e divergenze. A Parigi si invoca un esercito europeo autonomo, con un sogno inconfessato di una Francia prima inter pares, fornitrice degli equipaggiamenti e dei comandi; a Berlino, Roma, Varsavia e in altre capitali si subordina invece quell’esercito alla Nato.
Che Svezia e Finlandia abbiano fatto carte false per entrare nell’Alleanza atlantica testimonia dell’inadeguatezza della clausola difensiva prevista dai trattati europei, dell’imprescindibilità della Nato e della fragilità di un’Ue vassalla degli americani. Invertire la rotta sarà difficile perché il motore franco-tedesco, il più opulento in risorse, è in panne. L’allarme l’ha lanciato nei giorni scorsi pure il Guardian britannico, con molte ragioni. Da più di un anno, l’assemblea parlamentare franco-tedesca è impantanata. I programmi militari ne risentono, a partire dal piano per un carro armato rivoluzionario: dopo tre anni di batti e ribatti, francesi e tedeschi non sono arrivati a nessuna posizione comune, né sul piano industriale, né sull’impiego operativo, né sulle missioni future del mezzo. Macron e Scholz hanno promesso di sbloccare la situazione, in vista del prossimo vertice bilaterale.
Ma i requisiti dei loro eserciti divergono a tal punto che, se mai vedrà la luce, il carro sarà fatto in due versioni: una per i francesi e l’altra per i tedeschi. Il che si tradurrà in maggior complessità, costi esorbitanti e assenza di benefici di scala. Essendo difficile accordarsi a due, figuriamoci l’impresa che affronta la Commissione quando tenta di uniformare le visioni dei 27. Se ne è accorto anche il presidente ceco, che nei giorni scorsi ha invocato il rilancio di un pilastro europeo simmetrico alla Nato, urgente specie se in America vinceranno i repubblicani di Donald Trump.
Un appello fatto suo dal commissario Breton che, alla terza conferenza europea sulla difesa e la sicurezza europea apertasi il 10 ottobre, ha invitato i partner a «trarre le conseguenze dal cambio di paradigma imposto dalla guerra in Ucraina». Dobbiamo dotarci di «una nuova strategia per l’industria della difesa, chiara, lineare e rapida», ha aggiunto Breton, che si è spinto a evocare una cabina di regia «per il Fondo della difesa, che pianifichi e programmi». Fra i suoi obiettivi c’è pure un’infrastruttura comune «d’allerta precoce dei ciberattacchi», uno scudo ‘federale’ per i «satelliti e un altro per la minaccia aerea e missilistica». Perché non dotarci di «una portaerei europea?», ha poi aggiunto il commissario. Progetti fantasmagorici, soprattutto l’ultimo, visto che solo Italia, Francia e Spagna hanno capacità aeronavali, per giunta divergenti.
L’Europa di oggi appare impotente. Il programma Erip si è rivelato un boomerang: ha permesso acquisti massicci di aerei, blindati, missili e artiglierie, ma in pochissimi casi a beneficiarne è stata l’industria bellica continentale. Nel 2035, il 50% delle flotte europee di jet da guerra sarà in mano all’americana Lockheed Martin (F-16 ed F-35). Airbus e Dassault si spartiranno le briciole. I tedeschi stanno giocando ambiguamente: dicono di lavorare con i francesi e gli spagnoli ad un aereo di sesta generazione (Scaf), poi comprano gli F-35, affossando le sinergie. Si sono sfilati dal consorzio Tigre per un nuovo elicottero con i francesi. Partecipavano con Parigi ad un programma per un nuovo pattugliatore marittimo, ma hanno preferito rivolgersi oltreatlantico (Poseidon).
Quando, a inizio anno, hanno lanciato un piano per uno scudo antiaereo a copertura europea avrebbero potuto comprare prodotti franco-italiani e invece l’ombrello, apertosi a 18 paesi, parlerà ancora una volta americano (Patriot), israeliano (Arrow-3) e tedesco (Iris-t). La Polonia non è da meno: i suoi fornitori sono tutti americani e sudcoreani. Agli elicotteri francesi di Airbus, Varsavia preferisce gli Apache e i Chinook di Boeing. E’ una gigantesca base a stelle e strisce: ha stretto un vincolo militare di cooperazione rafforzata con gli Usa; accoglie i marines e ospita il quartier generale del V corpo statunitense. Come meravigliarsi che anche per le armi si rivolga oltreatlantico?
Il male accomuna molti. Negli ultimi sette anni, le vendite americane realizzate in Europa tramite l’invadente meccanismo del Foreign military sales hanno fruttato a Washington l’equivalente di quasi 180 miliardi di euro, di cui 20-30 fatturati in Polonia (aerei, missili e carri), 7 in Belgio (aerei e missili) e 5 in Romania (carri e missili). A Washington se ne compiacciono al punto tale che, il 25 settembre, il dipartimento di Stato ha concesso al fido alleato polacco un nuovo prestito di 2 miliardi di dollari per l’acquisto di ulteriori armi, tutte rigorosamente americane. La Commissione e l’Agenzia europea per la difesa si stanno dannando l’anima per invogliare gli stati membri a investire «insieme, meglio e in maniera europea».
Joseph Borrell è stato chiaro, l’8 maggio 2022, allarmato dal revanscismo russo: «è il momento di diventare seri in tema di difesa europea». Parole vane. L’autunno scorso, i suoi uffici, hanno lanciato amaramente un ennesimo programma per l’investimento nella difesa (Edip), pensando a consorzi collaborativi che concepiscano e fabbrichino armi ‘europee’ esenti da Iva. Ma senza vincoli ad acquistarle tutte queste misure non ridurranno le debolezze strutturali dell’industria continentale. Saranno come sassi nel mare. La base è frammentata. Le strutture proprietarie delle aziende europee sono auto-concorrenziali ed eterogenee, con imprese familiari in Germania, una forte presenza statale in Francia e in Italia, e industrie quotate nel Regno Unito. Airbus, Knds e Mbda sono rari casi integrativi di successo. La catena generale è poco europeizzata. I legami capitalistici non hanno dimensione continentale e il rapporto transatlantico è squilibrato a favore degli Usa, che hanno grosse partecipazioni azionarie nelle nostre aziende senza contropartite. Peggio: la nostra industria dipende dall’export per la sua sopravvivenza e non è un bene: la vendita di armi andrebbe, se non abolita, almeno centellinata.
Ne va di un settore portante per l’Europa, per i suoi 200mila addetti e per gli oltre 315mila impiegati dell’indotto, per la ricerca e sviluppo, per il commercio interno e per gli investimenti statali in aree svantaggiate. Neanche il Libro bianco sulla difesa comune, adottato subito dopo l’invasione russa, pare però destinato a sanare i mali di un’Ue in affanno, troppo esposta alle tirannie dei despoti di turno e alla buona volontà degli inquilini della Casa Bianca, ultima spiaggia in caso di aggressione.