Editoriale. L'Occidente, le sfide globali e un'America da decifrare
Il presidente francese Emmanuel Macron ha ribadito l’altro giorno che l’Europa dovrebbe perseguire l’autonomia strategica dagli Stati Uniti. Il suo appello è stato pronunciato in un momento di particolare concentrazione di notizie in arrivo dall’altra sponda dell’Atlantico, un flusso di eventi e di annunci che sembra evidenziare una ritrovata centralità Usa e che sconsiglierebbe la Ue dal cercare una presa di distanza. In realtà, c’è un’America tutta da decifrare, in una fase certamente densa che si prolungherà, verosimilmente, per tutti i mesi che ci separano dalle elezioni presidenziali di novembre, e anche in quelli successivi. Joe Biden, che sembrava nell’angolo per le gaffes e i piccoli incidenti legati all’età non più verde (81 anni), insieme al declinante (in apparenza) ruolo di Washington nelle maggiori crisi internazionali, ha ritrovato uno slancio insperato per una serie di abili scelte e di fortunate circostanze. Prima ha saputo gestire l’escalation tra Israele e Iran, partecipando alla difesa dello Stato ebraico e mettendone così in chiaro la dipendenza bellica dalla superpotenza per potere quindi convincere il premier Netanyahu a una rappresaglia contenuta. Subito dopo ha ottenuto, grazie al coraggio dello speaker repubblicano Mike Johnson, il via libera bipartisan al pacchetto di armamenti da consegnare all’Ucraina, ormai indispensabili alla difesa di Kiev perché capaci di riaprire l’ombrello protettivo sulle città bombardate dalla Russia. In questo modo, il capo della Casa Bianca ha anche incassato la spaccatura del fronte trumpiano al Congresso, mentre il tycoon che cerca un secondo nuovo mandato è alle prese con le udienze in tribunale a New York. Biden ora deve però convincere Israele a non attaccare Rafah e provocare un altro massacro di civili nel tentativo di sconfiggere i miliziani di Hamas. L’Amministrazione ha alzato la voce con Israele come mai era accaduto in precedenza, sebbene nelle stesse ore abbia dato via libera a importanti forniture militari. È questo, tra l’altro, uno dei motivi della crescente mobilitazione degli universitari della costa orientale. E qui cominciano le complicazioni di un quadro che incrocia scenari interni e internazionali. Gli studenti che occupano il campus della Columbia e di altri atenei solidarizzano con il popolo palestinese, criticando l’uso eccessivo della forza da parte del governo di Tel Aviv, ma non raramente hanno accenti antisemiti. Il governo americano, primo alleato di Israele, è ugualmente sotto accusa. Biden è in forte imbarazzo perché non vuole perdere questi voti né quelli della comunità islamica (anche se non andranno al suo rivale, finiranno nell’astensione o ai candidati indipendenti), né vuole lasciare spazio all’ostilità verso gli ebrei e Israele.
Tuttavia, la repressione poliziesca del diritto a protestare con toni accesi è un autogol per i democratici, il partito dell’élite intellettuale, mentre piace ai repubblicani che non vedono l’ora di gettare discredito sul sistema d’istruzione d’eccellenza, compattamente avverso al loro leader, il quale ricambia apertamente il disprezzo. Una partita interessante anche per l’Italia, che vede riproporsi alcune dinamiche simili nelle nostre università. Ma non bisogna sopravvalutare la portata di questi movimenti di piazza. Ai giovani che dimostrano è difficile obiettare “chi pensa alla cena?”, come si faceva con i sessantottini impegnati in un’utopia distaccata dalla realtà. I contestatori attuali sono figli di ricche famiglie e troveranno presto lavori ottimamente retribuiti grazie a lauree di prestigio. L’America profonda, quella che è sensibile alle sirene isolazioniste e alle ricette semplici e rudi di Donald Trump, osserva distrattamente e alle urne, quella frazione che vi andrà, terrà conto più dell’economia che della politica estera. Forse sarà scontenta di non potere più accedere a TikTok se fra meno di un anno scatterà la tagliola appena approvata contro la proprietà cinese, sospettata di non fare nulla per evitare i messaggi di propaganda inquinata che passano dalla frequentatissima piattaforma Web. Proprio con Pechino è risalita la tensione durante la missione del segretario di Stato Usa Blinken. Sostegno a Mosca e all’Iran, Taiwan, dazi commerciali: tutti i temi toccati nei colloqui sembrano forieri di contrapposizioni. Sono i due grandi giocatori sullo scacchiere planetario che cercano l’egemonia. Gli Usa di Biden provano a mantenerla nel disordine globale, riottoso alle indicazioni di un unico gendarme. In definitiva, decodificato questo frangente convulso, non ha torto Macron nell’esortare la Ue a farsi trovare preparata a ogni evenienza e ad avere dunque gli strumenti per cavarsela da sola. Che non sono soltanto difesa e capacità militare comuni. Servono anche intelligenza politica, forza economica e ispirazione ideale. Tutto ciò che ci aspettiamo dai nostri leader in vista delle elezioni europee.