Attualità

Soccorso in mare. Così la Guardia Costiera vigila sui viaggi della disperazione

Luca Liverani giovedì 18 maggio 2017

La Centrale operativa della Guardia costiera

Il colpo d’occhio è quello delle scene dei film. Grandi schermi a parete con vedute totali o parziali del Mediterraneo. Ecco la Sicilia, Lampedusa più in basso di Malta e di Tunisi, poi il Golfo della Sirte, dove si intrecciano speranze e tragedie. In sala donne e uomini con gli occhi incollati ai monitor. Siamo nella Centrale operativa nazionale della Guardia Costiera, ospitata all’Eur nella sede del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che ha aperto le porte ad "Avvenire" per mostrare il cervello - e il cuore - della potente macchina che coordina e gestisce tutto il soccorso in mare.

Per chiunque lanci l’esse-o-esse. Pescatori in difficoltà, diportisti alla deriva, mercantili in panne. Ma, dopo l’implosione dello stato libico, soprattutto i migranti forzati. Donne e uomini in fuga dalle guerre, dai terroristi, dalle dittature e dalle carestie. E la legge del mare - quella non scritta e quella scritta delle convenzioni di Amburgo del 1979 o di Montego Bay del 1982 - impongono il soccorso di chi rischia il naufragio e il trasbordo in un «porto sicuro». Salvataggi anche nelle acque territoriali, perché il soccorso in mare non è solo un dovere morale, ma anche un obbligo giuridico.


Passa tutto da questa sala silenziosa. È la Guardia Costiera che ha l’incombenza e il dovere di coordinare in mare i suoi mezzi così come quelli militari, delle missioni internazionali Frontex e Eunavfor Med-Sophia, e anche dei privati: mercantili, traghetti, navi delle Ong. In mare tutti sono tenuti ad accorrere, se è necessario e su indicazione della Guardia Costiera. È qui, a centinaia di chilometri dal quadro delle operazioni che 24 ore su 24 si compie un "miracolo" reso possibile da tecnologie sofisticatissime - radio e satellitari - e professionalità di altissimo livello, riconosciute internazionalmente. Sostenute da una tensione e da una passione umana che non conosce orari. Perché qui c’è tutta gente che in mare c’è stata.

I mezzi in difficoltà sono individuati con diversi sistemi: l’Ais (Automatic identification system), la piattaforma Pelagus che monitora i 33.700 mercantili nel Mediterraneo fornendo di ognuno carico e rotta, il Vms (Vessel monitoring system) per i pescherecci e, al di fuori del Mediterraneo con il Lrit (Long range identification and tracking) per tutte le navi italiane. Genova, Otranto, Stretto di Messina e Bocche di Bonifacio sono scandagliati dai radar.


Una dotazione tecnologica imponente, indispensabile perché l’area di intervento è sconfinata Il Mediterraneo è diviso in "aree di responsabilità SAR", acronimo che sta per Search and rescue. Dove finisce l’area Sar dell’Italia comincia quella della Francia. La nostra è di 500 mila chilometri quadrati, il doppio della superficie dell’Italia, con 8 mila chilometri di coste. Ma a Sud dell’Italia si apre un buco nero, perché la Libia non ha un’area Sar. Così quella dell’Italia di fatto è più che doppia: un milione e 100 mila chilometri quadrati.

I mezzi e gli uomini non mancano: 600 imbarcazioni, dai gommoni alle navi portaelicotteri, passando per le incredibili motovedette "Ognitempo classe 300", capaci di affrontare anche il mare in tempesta, inaffondabili perché in caso di ribaltamento completo riescono a rigirarsi e tornare in posizione, con l’equipaggio assicurato da cinture di sicurezza. Dalle tre basi aeree di Luni-Sarzana, Pescara e Catania possono decollare gli elicotteri AW139 di ultima generazione, dotati di rilevatori a infrarosso per la ricerca notturna dei naufraghi. Per la ricognizione in mare aperto ci sono gli aerei: ATR42, P180, PL166. E un esercito di 11 mila uomini dislocati in 310 comandi territoriali, che però si devono occupare di moltissimo: oltre che di sicurezza della navigazione e comando dei porti nelle Capitanerie, alle dipendenze del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, c’è la tutela ambientale col ministero dell’Ambiente e il controllo della filiera ittica col ministero delle Politiche agricole. Per le immersioni ci sono cinque nuclei subacquei a Genova, San Benedetto del Tronto, Napoli, Cagliari e Messina. E per il recupero dell’uomo in mare gli aerosoccorritori che si calano dagli elicotteri o i rescue swimmers, i nuotatori per il salvataggio che si tuffano dai gommoni.


Ma è qui, nella sala operativa che avviene la direzione dell’orchestra. Qui arrivano le segnalazioni dei natanti in pericolo: dalle stesse imbarcazioni, dai telefoni satellitari dei migranti, dagli avvistamenti delle unità in mare, a volte da telefonate da altri paesi europei dove i familiari dei migranti hanno ricevuto la richiesta di soccorso. Un servizio di traduttori simultanei garantisce la comprensione di 27 lingue. È qui che in tempo reale, senza perdere un minuto, si individua la posizione della barca in pericolo e quella dei mezzi più vicini. Se il pericolo non è immediato, viene indirizzata sul luogo una nave della Guardia Costiera, della Marina, di una delle missioni Internazionali.

Oppure una dei mezzi delle Ong. Spesso sono loro a segnalare alla Sala operativa le "carrette" avvistate. In caso di emergenza vengono autorizzate le stesse Ong o l’imbarcazione in zona più vicina. Se serve, anche un mercantile o un peschereccio. Poi sarà ancora la Guardia Costiera a indirizzare, in osservanza delle convenzioni marittime, il "porto sicuro" in cui sbarcare i naufraghi. Non in Libia, finché lì non rinasce lo Stato, per il principio del «non respingimento» in un paese non sicuro. Nemmeno a Malta o in Tunisia, che non hanno sottoscritto le convenzioni. Ogni natante è solo un puntino su questi schermi. In realtà è uno strumento essenziale che deve suonare la nota giusta, nella complessa partitura sul leggìo della Centrale operativa della Guardia Costiera.