Editoriale. L’Italia, le paure e il 2050. L'imprevisto di periferia
Si direbbe che abbiamo paura. La parola torna insistentemente nel rapporto Censis sull’Italia del 2023. Abbiamo paura di un sacco di cose: dei cambiamenti climatici, di una guerra, dei flussi migratori, di un default dello Stato. Sembriamo una famiglia invecchiata che rimpiange una stabilità e un benessere perduti. La sola paura non apertamente espressa dagli intervistati è quella del declino demografico, di tutte, però, la più oggettiva. Anno 2050, saremo in 4,5 milioni di meno. Già oggi i 18-34enni, quelli che entrano nel lavoro e hanno figli, sono poco più di 10 milioni, mentre nel 2003 superavano i 13 milioni. In vent’anni abbiamo perso tre milioni di giovani.
Tre milioni di figli non pensati e attesi, o cancellati, perché si temeva di non poterli mantenere. Perché non c’erano più i nonni vicino a casa, ma nemmeno ancora i nidi. Figli che non sono nati nel mito di una autorealizzazione individualistica, nel fallimento dei matrimoni, figli che spaventavano giovani coppie dal lavoro precario. Tre milioni di meno. Dunque una riduzione netta della popolazione attiva, e l’aumento verticale, in parallelo, degli ultrasessantacinquenni. Il declino segnalato dai cattolici per primi, trent’anni fa, va concretizzandosi.
«Ciechi davanti ai presagi, passivi come sonnambuli», ci descrive il Censis. C’è del vero: a livello popolare la coscienza delle crisi c’è, ma come accompagnata da un senso di impotenza, soprattutto nei giovani; di rassegnazione, nei più anziani. Non appena sui media si allontanano le vertigini del Covid, della guerra in Ucraina e ora in Israele e a Gaza, sui tg un’onda di cronaca nera. Per non pensare? Poi come sempre conti pubblici al limite, multe dalla Ue, scontri, liti, e fra poco Sanremo, di nuovo. Mai uno sguardo a lunga distanza, uno sguardo più in là. Sarà perché di certe previsioni cupe non giova dire, nei programmi elettorali. Difficilmente una prospettiva più ampia su ciò che attende il Paese porterebbe dei consensi, e siamo nella politica dei “mi piace” sui social, dell’incasso immediato. Che faranno dunque gli italiani del 2050? Chi lo sa, mancano 26 anni, nel frattempo noi speriamo che ce la caviamo. Ma quegli italiani sono i nostri figli, e saremo noi, magari ottuagenari. Bisognosi di cure, e a volte con nessuno accanto. Di tutte le paure degli italiani, quel 70 per cento che teme per Sanità e assistenza ne ha buone ragioni. E si comprende anche il gran favore per l’eutanasia, che altro non è che tangibile paura. Triste destino per i baby boomers, gli italiani più vaccinati, nutriti e istruiti di sempre. Il posto super garantito, la pensione a sessant’anni. Una generazione che non ha visto la guerra e ha perso la spinta dei suoi vecchi, che ricostruirono il Paese.
Inevitabile declino dunque? Le scienze statistiche si basano quanto è accaduto, e quindi sul ragionevole andamento di ciò che è prossimo. Tuttavia mancano di una categoria fondamentale: non contemplano l’imprevisto. Il Covid, cinque anni fa, sarebbe sembrato fantascienza. I tank russi in Europa anche.
Non necessariamente nella storia l’imprevisto è un disastro. Imprevisto era anche che un polacco sul soglio di Pietro scuotesse il Muro di Berlino. Sono gli uomini che fanno la storia, ma bisogna farli nascere e educarli. Un orto oscuro e paziente, nessun risultato per trent’anni. Poi, magari, nascono figli nuovi.
Ci occorrono dei padri e delle madri, dei maestri e dei professori. Non solo “bravi” ma buoni, capaci di dare loro le ragioni del vivere. Maestre come quelle di una volta ci servono, che alle famiglie povere dicevano: questo, fatelo studiare.
Ora, tutto ciò richiederebbe una tensione al bene comune. L’abbiamo ancora? Gli immigrati detti “invasori” vengono da guerra o miseria, e portano con sé, almeno in molti, la gran voglia di vivere di chi ha visto la morte. Chissà chi c’è, nella moltitudine di ragazzini che imparano ora l’italiano. Quanta voglia di ricostruzione e di pace potrebbero insegnare a noi, se noi da cristiani sapessimo dimostrare loro che la vita è buona, e ha un senso.
«Un imprevisto è la sola speranza», scriveva Eugenio Montale, all’ultimo verso di una poesia su un viaggio totalmente programmato e scontato. L’imprevisto abita forse in aule di periferia, fra i ragazzi dei nostri oratori, nelle Maternità italiane piene di neonati cinesi o africani. Il 2050 sta già cominciando. Accogliere, volere bene, insegnare l’italiano, fare studiare i migliori. Un popolo si fabbrica così, è accaduto sempre: in quell’imprevisto tenace che è la vita, troppo grande per le statistiche.