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Intervista. Lamy: «L’Europa torni padrona del suo destino»

Eugenio Fatigante mercoledì 27 novembre 2024

«L’Europa deve riappropriarsi del proprio destino». E Ursula von der Leyen deve governare «senza ricorrere alle forze estreme». Pascal Lamy è uno dei “grandi vecchi” (malgrado l’aspetto ancora giovanile a 77 anni) dell’Europa e ne ha viste tante: economista (e socialista) francese, già efficacissimo capo di gabinetto di Jacques Delors negli anni (1985/1995) della crescita tumultuosa della Ue, poi commissario europeo per il Commercio con Prodi e direttore del Wto nella fase finale dell’ingresso della Cina. Lo incontriamo a Venezia, ospite dell’Istituto Berggruen al “Planetary Summit”, evento curato dal direttore europeo Lorenzo Marsili che ha radunato per due giorni intellettuali, politici e scienziati di varie nazioni per ragionare su forme di governance globale per le nuove sfide che incombono sul pianeta.

Lamy, i mille giorni di guerra in Ucraina hanno compattato ancor più l’Occidente su una linea Usa e spinto la Russia più vicino alla Cina. Tutto ciò in fondo fa gioco a questi tre attori. Ma può andar bene anche a noi europei?

È vero, nel 2022 Putin ci ha messo tra le braccia degli americani e noi lo abbiamo spinto tra quelle dei cinesi. La narrativa che ne è emersa contrappone un certo “tipo di Occidente” al resto del mondo. Questa realtà rappresenta un problema serio e cruciale per l’Europa. Il nostro continente ha bisogno di riappropriarsi del controllo sul proprio destino. Altrimenti, si rischia di alimentare la nozione di un mondo diviso solo in due blocchi in perenne conflitto, con la rivalità fra Usa e Cina che struttura oggi il mondo. Non dovrebbe essere questa la posizione dell’Europa.

Parte ora la nuova Commissione Von der Leyen, col voto anche di parte di Ecr. L’Europa ha sprecato negli anni la chance di essere protagonista della rivoluzione tecnologica. Vede questo “governo” Ue attrezzato per le sfide che l’attendono?

Le forze politiche europee si stanno muovendo lentamente, ma costantemente verso destra, è evidente. Il Parlamento Europeo continua tuttavia a mantenere una maggioranza centrista e pro-europea, sostenuta in primis da forze come Ppe, socialdemocratici e liberali. Tuttavia, in alcune occasioni, la sinistra e la destra estreme sono riuscite a influenzare il voto. La sfida per von der Leyen nei prossimi 5 anni sarà quella di consolidare una maggioranza senza ricorrere al sostegno di forze estreme. Resta da vedere se ci riuscirà.

Come si può trovare un terreno comune per una “governance” globale che non sia dominata da pochi Stati protagonisti?

In un quadro più ampio, è innegabile che l’Europa abbia perso terreno negli ultimi trent’anni. Soffre innanzitutto di un basso potenziale di crescita. Sul piano demografico l’immigrazione, sebbene necessaria per ragioni economiche, rappresenta una sfida culturale ancora non vinta. Inoltre, è vero che Cina e Usa sono ormai avanti in molte tecnologie strategiche rispetto all’Europa, che deve recuperare autonomia strategica.

La strada indicata dai rapporti di Draghi e Letta è giusta?

Sì. Solo attraverso un’integrazione più profonda fra Stati europei che sono troppo piccoli potremo trovare l’energia e la forza necessarie per competere su scala globale. La Ue rappresenta un esperimento unico di “mini-globalizzazione”, collocandosi a metà strada tra lo Stato nazionale e la globalizzazione. È un modello ancora in divenire che può ispirare nuovi approcci alla governance globale. Dipende dal suo successo o fallimento, che avranno profonde implicazioni per il futuro del mondo.

Le nuove destre che avanzano cercano di far convivere la globalizzazione con una visione identitaria. Vede più rischi o opportunità in questo loro approccio?

L’estrema destra europea, sotto la guida ideologica di Viktor Orbán, ha cambiato natura: non mira più a uscire dall’Ue, ma a modificarla e cambiarne volto dall’interno, adattandola ai propri valori nazionalisti. Ciò rende la politica europea sempre più simile a quella nazionale, frammentandola ulteriormente. La grande domanda per il futuro è: il centrodestra riuscirà a resistere all’estrema destra o ne verrà assimilato? Le risposte variano per ora, osserviamo dinamiche diverse in Austria, Francia, Italia, Germania e Spagna.

Lei presiede il “Paris Peace Forum”: con l’elezione di Donald Trump la pace in Ucraina è più vicina o no?

Una pace duratura mi sembra ancora lontana. Potrebbe emergere un cessate il fuoco o una stabilizzazione temporanea se entrambe le parti arrivassero alla conclusione che il costo in termini di vite umane e distruzioni non porterebbe ulteriori vantaggi. E se Trump dovesse ridurre l’aiuto militare all’Ucraina, in termini economici l’Europa potrebbe anche colmare questo vuoto, ma in termini militari sarebbe molto più difficile.

Andiamo in Medio Oriente: la Cpi ha spiccato un mandato di arresto per Netanyahu e Gallant. Può creare uno stallo nel lavoro diplomatico?

Non credo. Le tensioni irrisolte, gli interessi geopolitici delle potenze mondiali e le questioni umanitarie rendono il Medio Oriente una delle regioni più fragili e cruciali per la stabilità globale. Anche qui è essenziale che l’Ue non rimanga spettatrice passiva, ma contribuisca a soluzioni multilaterali e inclusive, favorendo dialoghi diplomatici che non siano dominati solo da Stati Uniti e Cina. Se oggi ci fosse una conferenza di pace, qui come per Kiev, non so se l’Ue sarebbe al tavolo, comunque non all’inizio.

Trump minaccia nuovi dazi, già terreno di scontro fra Cina e Ue. Come valuta questa nuova ondata protezionista?

Ondata? Questo è già vero protezionismo. Trump considera il deficit commerciale Usa una debolezza, ma nel primo mandato non lo ha ridotto. Io non sono d’accordo, gli Stati Uniti possono sostenere un enorme deficit grazie alla loro capacità di stampare dollari. Dubito che nuove tariffe cambierebbero la situazione. Gli altri Paesi dovrebbero rispondere attraverso i meccanismi del Wto, coordinandosi per evitare che le tensioni con gli Usa si estendano al sistema economico globale.

Da eventi come il Planetary Summit possono venire forme di “diplomazia culturale”?

L’Istituto Berggruen offre una piattaforma per riflettere. Non si tratta di diplomazia tradizionale, ma di un esercizio intellettuale per esplorare idee innovative che possano aiutarci a comprendere le interconnessioni tra crisi globali, dai conflitti alle pandemie. Speriamo con il tempo di identificare nuovi concetti per rispondere a queste sfide.

(ha collaborato Annamaria De Paola)