La storia. Quel kibbutz con radici bergamasche che coltiva il sogno della pace
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I semi calpestati di una convivenza possibile germogliarono nel 1947 nel deserto del Negev. A venti chilometri dalla Striscia di Gaza e a poco più di cinque dall’Urban warfare center, la finta cittadella araba dove i militari israeliani dal 2005 si addestrano alla guerriglia urbana. Il kibbutz di Tze’elim nacque inseguendo un sogno di pace, ma poi si è ritrovato l’esercito come ingombrante vicino di casa. Una beffa del destino. Eppure i bambini arrivati da Selvino hanno sempre vissuto tendendo la mano ai palestinesi. Perché così gli avevano insegnato i maestri che li accolsero a Sciesopoli, ex colonia fascista sulle montagne bergamasche riciclata in centro di accoglienza.
Dopo il 1945 in Val Seriana arrivarono 800 piccoli orfani sopravvissuti ai lager, raccolti dalla Brigata ebraica e dalla Bricha - l’organizzazione che radunò gli scampati all’Olocausto - mentre vagavano attorno ad Auschwitz o nelle foreste tra Polonia, Ungheria e Romania. Da Selvino quella generazione perduta ripartì clandestinamente verso la Palestina, per «costruire una società finalmente protettiva, fondata sul dialogo e la collaborazione con gli arabi che già vivevano in quella terra», spiega Marco Cavallarin, lo storico milanese che nel 2012 tolse dall’oblio la meravigliosa storia di Sciesopoli. Ma prima di attraversare il Mediterraneo in senso opposto rispetto ai migranti di oggi, i bambini «furono riportati alla vita» grazie al lavoro paziente di insegnanti e psicologi, con l’aiuto degli stessi abitanti di Selvino, degli ebrei milanesi e del Cln. Lezioni di musica e teatro, interrotte da tante partite di pallone, per riscoprire il significato dell’essere umani, cancellato nei campi di concentramento.
Con quel bagaglio di speranza salparono dai porti italiani, insieme ad altri 30mila ebrei, nascosti a bordo di mercantili o pescherecci: chi riuscì a superare il blocco navale della marina britannica, sfuggendo ai campi di prigionia inglesi a Cipro, sbarcò sulle coste della Terra promessa. Quattro bambini di Sciesopoli, ormai ragazzi, morirono combattendo nella guerra del 1948, la prima tra il neo proclamato Stato di Israele e i vicini arabi. Molti si insediarono invece nel kibbutz di Tze’elim, appena fondato dai movimenti giovanili ebraici. Da orfani si trasformarono in padri e madri, e iniziarono a sviluppare l’agricoltura intrecciando i saperi europei con la conoscenza della terra che solo gli arabi possedevano.
Alcuni di loro abitano ancora nel villaggio (sfiorato dall’attacco di Hamas) e continuano a trasmettere quei valori a figli e nipoti. «Nonostante i conflitti, a Tze’elim si è sempre coltivata la tolleranza: non solo tra ebrei e musulmani, ma anche verso i cristiani – dice Cavallarin -. Molti avevano amici tra gli arabi, avevano relazioni. In altri kibbutz c’erano scuole miste. Chi avrebbe immaginato, nel 2023, di assistere a un nuovo pogrom, quello di Hamas. Ancora una volta quegli ideali sono stati violentati, nel modo più orribile». I bambini e i giovani nel mirino, oggi come 80 anni fa.
«Credo che ci sia un programma ben preciso in tutto questo – riflette Cavallarin –. Colpire le nuove generazioni significa uccidere il futuro di un popolo. Lo abbiamo visto con il massacro del Bataclan, lo abbiamo rivisto ora. Siamo tornati indietro nel tempo, perché i nazisti fecero le stesse cose. Nei lager i primi a essere eliminati furono i vecchi, considerati un fastidio, ma poi si passò ai più piccoli. Durante il rastrellamento del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma furono portati via 200 bambini: nessuno di loro fece ritorno». Di fronte allo scenario di guerra che incombe sul Medioriente, il ricordo di Sciesopoli sembra sbiadire sempre più. Ma la memoria, insiste Cavallarin, va conservata.
«A Selvino abbiamo fatto un museo, è allestito in municipio: lo visitano le scolaresche di tutta Italia. Otto anni fa organizzammo un raduno degli ex bambini, vennero in tanti da ogni parte del mondo. Una festa bellissima». Il coro della scuola elementare di Selvino intonò le strofe di Gam Gam, la canzone ispirata al Salmo 23 che gli ebrei cantano durante lo Shabbath: «Anche se andassi per le valli più buie, di nulla avrei paura, perché tu sei al mio fianco».
Quel giorno l’86enne Sidney Zoltak, accanto agli amici ritrovati, si lasciò sfuggire una lacrima silenziosa. Poi disse: «Ricordare è duro, ma necessario». Purtroppo non basta. La spirale di violenza sembra non avere mai fine. «Prevalgono gli integralismi – riflette Cavallarin, che ha parenti in Israele e una nipote arruolata – da una parte e dall’altra. E in Occidente ci dividiamo in fazioni, tifando per questo o per quello. Un atteggiamento che dà sicurezza a chi, non avendo ricchezza di pensiero, è incapace di affrontare la complessità. Invece bisognerebbe essere più miti: mostrando umanità, potremmo innescare un circolo virtuoso e provare a immaginare un mondo diverso, migliore».
Come fecero i bambini di Sciesopoli, dopo aver visto l’orrore.