Attualità

Coronavirus. L'assedio incrociato che ha rotto la trincea del premier

Marco Iasevoli domenica 22 marzo 2020

Galleria Vittorio Emanuele a Milano deserta

Quell’equilibrio inseguito sin dall’inizio della fase emergenziale, l’equilibrio tra restrizioni e libertà individuali, alla fine non ha retto. Così come non ha retto, nel premier Conte, la strenua convinzione che tenendo acceso – seppure al minimo – il Paese, il contagio sarebbe stato affrontato con sufficiente velocità e la ripartenza sarebbe stata più agevole. Sono equilibri che vacillavano da giorni, ogni pomeriggio alle 17, quando il presidente del Consiglio riceveva in anticipo i dati che il commissario Borrelli andava poi a comunicare al Paese un’ora dopo. Negli ultimi giorni si sono accavallati drammatici record negativi che il premier avrebbe voluto affrontare tenendo ferme le decisioni già assunte e aspettandone l’esito nel medio termine, ma che un pezzo consistente di Paese ha chiesto a gran voce di affrontare con misure estreme. Si tratta di quel famoso “pulsante off” che secondo Conte andava ritardato il più possibile perché il prezzo da pagare potrebbe essere troppo alto per la collettività, ora e dopo l’emergenza. Ma l’intero piano–Conte vacillava da giorni anche per una storia più personale: un agente della scorta del premier è risultato positivo, lo stesso Conte si è sottoposto al tampone che ha dato esito negativo. Un fatto emerso ieri pubblicamente con l’autorizzazione di Palazzo Chigi, perché il premier vuole far capire a chi lo pressa – e a chi lo accusa – che questa vicenda lui la sta vivendo in modo umanamente intenso, e non con il distacco del potere.

Le strategie valide sino a venerdì non hanno retto anche perché di colpo è aumentato l’isolamento politico del premier. Da giorni è evidente che Conte condivide le decisioni fondamentali sulle restrizioni e sull’economia con i ministri dem, mentre i ministri M5s sembrano avere meno peso e si occupano di dossier specifici. Lo stesso Di Maio resta concentrato su temi singoli benché cruciali, come l’approvigionamento di materiale sanitario dall’estero e il rientro degli italiani. Una situazione che non poteva reggere a lungo. E infatti ieri una nota informale del Movimento ha fatto sapere che M5s era ed è «favorevole» ad ulteriori restrizioni. Nei fatti si sconfessa quanto detto dal premier sino a venerdì, quando il governo ritenne di rispondere alle già pressanti richieste dei governatori con un’ordinanza della Salute sui parchi e sulle “corsette”.

Per quanto possa essere debole in questo momento M5s, questo scostamento pesa nelle valutazioni di Conte. E arriva poi in una giornata di pressioni formidabili su Palazzo Chigi. Non è solo il lombardo Fontana ad andare oltre con un’ordinanza alle misure del governo, sono diverse le Regioni che inaspriscono le misure e gruppi di sindaci scrivono quasi disperati al premier. Sono i primi cittadini del bergamasco guidati dal dem Gori e quelli del fiorentino, capeggiati da un altro dem, Nardella. E poi anche una associazione datoriale importante come Confartigianato fa sapere che allo stato una serrata è il male minore, «i conti sui danni li faremo dopo».

Il grido del territorio. La partita politica con M5s. E poi l’alleanza Salvini–Renzi sul funzionamento del Parlamento perché le Aule lavorino e il governo non prenda decisioni senza contraltari e dibattito. In qualche modo, Conte inizia ad avvertire un sospetto, che prima o poi qualcuno, nel Palazzo, gli addebiti per intero la crisi sanitaria, i decessi, l’aumento dei contagi, la situazione oltre i limiti dei medici e del personale sanitario. Un sospetto contro il quale a Conte verrebbe anche voglia di ribellarsi, data la difficoltà di recuperare in pochi giorni a mancanze e carenze ultradecennali. Ma alla fine questo complesso di circostanze fa pendere la bilancia verso una nuova stretta, per quanto il premier la ritenesse non ancora «proporzionale».

Infine vacilla e cade anche l’idea di procedere alle ultime restrizioni attraverso circolari e ordinanze ministeriali. Anche perché la decisione più dura e drastica, quella che Conte ha cercato sinora di allontanare da sé, può prenderla solo lui con un Dpcm: la chiusura delle fabbriche che operano in comparti non essenziali. La Lombardia nei fatti è pronta, il Veneto e altre Regioni – a prescindere dai proclami dei governatori – molto meno, perché meno certe dei lombardi di potersi rimettere presto in carreggiata. L’ipotesi su cui si è lavorato nel pomeriggio – e poi confermata nella notte – è di lasciare aperte solo le produzioni essenziali, dalla filiera alimentare a quelle energetica e delle telecomunicazioni (anche la stampa non è toccata da chiusure). Per la macchina della pubblica amministrazione si ipotizza un passaggio ancora più massiccio e vincolante verso lo smart working. E sul modello lombardo, niente cantieri e niente studi professionali, ma con l’urgenza assoluta, arrivati a questo punto, di rinviare scadenze fiscali e amministrative.