Al voto. Stipendi ai prof, Ius scholae... : la scuola che verrà è il libro dei sogni
Credo che nessun ministro dell’Istruzione degli due o tre decenni abbia mancato di riconoscere che alla scuola bisognerebbe assegnare più risorse. Per varie ragioni: a partire dall’annosa questione degli stipendi degli insegnanti, tra i più bassi dell’Unione Europea. Anche Enrico Letta – forse l’unico leader di partito ad aver indicato la scuola come asset strategico per il futuro dell’Italia – ha ribadito questo impegno pochi giorni fa: in cinque anni, ha detto il segretario del Partito democratico, si potrebbe raggiungere l’obiettivo di aumenti che rendano i salari dei docenti dignitosi per dei professionisti laureati e specializzati.
D’altra parte, tra le forze politiche in campo, la sinistra è da sempre quella più attenta al tema della scuola, forse – potrebbero azzardare i sospettosi – non solo per ragioni di convinzione ideale, ma anche perché persuasa di poter contare, in questa categoria professionale, su uno zoccolo duro di votanti.
Che gli insegnanti italiani siano in larga parte "di sinistra", tuttavia, è cosa da dimostrare. Con la fine delle ideologie novecentesche (a partire dal marxismo) e il radicale rimescolamento degli scenari politici, anche molti docenti – come tutti – si sono "riposizionati".
Non si può poi dimenticare come uno dei provvedimenti più indigesti a maestri e professori, la legge 107/2015, la cosiddetta "Buona scuola", fu varata da un governo presieduto dall’allora segretario del Pd, Matteo Renzi, che l’aveva fortemente voluta con quei precisi contenuti, al punto da farla passare attraverso un voto di fiducia per evitare la discussione parlamentare. Renzi nel frattempo ha abbandonato il Pd per migrare verso altri lidi, ma non è escluso che qualche punta di diffidenza nei confronti del centrosinistra sia rimasta da allora negli insegnanti italiani.
Quello, però, è il passato. Ora – guardando al futuro – si tratta di esaminare i programmi elettorali dei vari partiti. Nessuno dei quali è esente da precisi riferimenti e specifiche proposte inerenti alla scuola, anche se il tema non sembra avere nei programmi quella centralità che hanno altri argomenti (per esempio, a seconda dei casi, la flat tax, l’immigrazione o il reddito di cittadinanza).
Del Pd abbiamo detto. Aggiungiamo che ribadisce la necessità di introdurre lo "Ius scholae" (il riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli di stranieri che completino un ciclo di studi da noi) e vorrebbe innalzare l’obbligo scolastico a 18 anni: proposte, come sappiamo, avversate dalla destra.
Controversa, venendo a quest’ultimo schieramento, è anche l’idea di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, di ridurre la durata dei licei da 5 a 4 anni. Una sperimentazione in tal senso è già in atto dal 2013, ma i suoi risultati non sono stati diffusi né adeguatamente discussi. Si dice una scuola superiore di 4 anni velocizzerebbe l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Viene però da chiedersi dove sia tutto questo lavoro che aspetta diplomati e laureati, ma soprattutto è forte il dubbio che in un mondo complesso come quello in cui viviamo, per muoversi nel quale servono conoscenze e competenze sempre più raffinate, abbia senso ridurre la scuola anziché potenziarla.
Ma le proposte non finiscono qui. Ciascun partito o coalizione sembra volersi caratterizzare con qualcosa di specifico, tante belle idee che, messe insieme, trasformerebbero la scuola italiana nella migliore delle scuole possibili. Azione e Italia Viva, per esempio, promettono – con i loro leader Carlo Calenda e Matteo Renzi – il tempo pieno per tutti i bambini della scuola primaria: cosa che certamente aiuterebbe molto le famiglie. Sempre dal cosiddetto "terzo polo" viene espressa la volontà di differenziare le carriere degli insegnanti su basi meritocratiche. Proposito difficilmente attuabile e neanche necessariamente auspicabile: sarebbe davvero sensato pagare in maniera differenziale professionisti che svolgono le medesime mansioni? Verdi e Sinistra Italiana vorrebbero ridurre a 15 il numero di alunni per classe: sarebbe certamente un numero ideale per potenziare l’apprendimento.
La Lega di Matteo Salvini insiste sull’assunzione di 150mila precari, progetto che – paradossalmente – andrebbe a braccetto con quello dei Verdi e di Sinistra Italiana, perché aumentando il numero dei docenti assunti si concretizzerebbe la possibilità di avere classi meno affollate. L’abolizione del precariato in un senso più generale figura nel programma della coalizione di centrodestra. "Abolire il precariato" era già stato uno slogan della già citata "Buona scuola" di renziana memoria. Si è visto come è andata a finire.
È ancora il centrodestra a insistere su un punto sul quale il nostro giornale ha spesso ragionato per sostenere la necessità di trovare una soluzione a una questione pendente da troppo tempo: riconoscere la libertà di scelta educativa delle famiglie attraverso il buono scuola, che consentirebbe di iscrivere i figli a una scuola statale o a una scuola paritaria, senza dover sostenere direttamente le spese per quest’ultima.
Il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte non fa stranamente cenno a una delle sue battaglie storiche, l’eliminazione di quelle che con brutta espressione giornalistica vengono chiamate "classi pollaio", ma, oltre ad appoggiare lo "Ius scholae" e l’aumento degli stipendi dei docenti, punta sull’introduzione dell’educazione sessuale e affettiva. Tema non facile, perché entriamo in un campo in cui le convinzioni esistenziali e religiose delle famiglie non possono essere ignorate.
Le proposte, insomma, sono tante, ma c’è già chi ha fatto notare che il loro insieme assomiglia più a un libro dei sogni che a qualcosa di concretamente realizzabile. Questo per un motivo molto semplice: tante di queste idee, per essere tradotte in realtà, hanno bisogno di una copertura finanziaria incompatibile con i bilanci di spesa pubblica verosimilmente preventivabili.
Rimane infine il capitolo di università e ricerca. Qui le indicazioni contenute nei programmi sono molto più scarse. Quasi tutti parlano genericamente della necessità di aumentare le risorse, ma nessuno dice più di tanto per fare che cosa. A tal proposito si potrebbe ricordare che anche gli stipendi dei ricercatori e professori universitari italiani sono tra i più bassi d’Europa. Spicca, nello specifico, l’idea del M5s di ridurre il numero chiuso nei corsi di laurea che lo prevedono. Certamente si può ritoccare la normativa vigente per migliorarla. Ma per carità, non si chieda di far entrare 500 matricole in un’aula che ne può contenere al massimo 100. La quantità non può andare a scapito della qualità.
Della latitanza dei partiti di fronte ai temi di università e ricerca si intuisce il motivo. Se tutti sono concordi nel ritenere questi settori strategici per il rilancio del sistema Paese, in termini elettorali l’argomento paga poco, perché – a differenza della scuola – riguarda in maniera diretta un numero molto più esiguo di cittadini. Questo non è un buon segnale, perché rischia di ingenerare il sospetto che tutte le belle cose sulla scuola sopra riportate altro non siano che uno specchietto per allodole (o, meglio, per elettori). Speriamo vivamente che non sia così. E che siamo noi a essere troppo guardinghi.