Intervista. Minniti: cittadinanza, Ius culturae da approvare subito
L’appello alla coscienza di ciascun parlamentare, affinché si possa approvare «entro questa legislatura, anche senza correzioni» la legge su Ius soli e Ius culturae. Poi, l’importanza del Piano nazionale per l’integrazione, proposto a chi arriva nel nostro Paese, «perché chi si integra bene, difficilmente aderirà ai proclami dei terroristi». E ancora il calo dei flussi migratori via mare dalla Libia («Serve un piano di interventi per l’intera Africa, non spiccioli, ma 6 miliardi di euro come per l’accordo con la Turchia») e la decisione di passare dai grandi centri d’accoglienza come Mineo e Isola Capo Rizzuto a strutture più piccole e trasparenti. E infine il contrasto investigativo e culturale alle mafie, prima fra tutte la ’ndrangheta calabrese, il nuovo Codice antimafia («Prendo atto delle critiche, ma io lo valuto positivamente ») e la caccia ai super latitanti, a partire da Matteo Messina Denaro: «Gli abbiamo fatto terra bruciata attorno, lo prenderemo». Sono alcune delle questioni toccate nel forum, svoltosi nella sede romana di Avvenire , fra il ministro dell’Interno Marco Minniti, il direttore del quotidiano cattolico Marco Tarquinio e alcuni giornalisti della redazione. Due ore di botta e risposta nel corso delle quali il ministro ha passato in rassegna diversi fronti caldi, spiegando la propria «visione » di fenomeni epocali come quello migratorio. Eccola di seguito, a partire dalla battaglia politica e culturale per l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza.
Avvenire: decine di parlamentari, compreso il suo collega di governo e del Pd Graziano Delrio, sono in sciopero della fame per sollecitare l’approvazione della legge. Lei sta con loro? Aderirebbe all’iniziativa?
Sullo sciopero della fame, i miei collaboratori possono confermare come io mi nutra con parsimonia... Scherzi a parte, incominciamo sgombrando il campo da un equivoco sul quale giocano furbescamente demagoghi e populisti: quando parliamo di Ius soli e ius culturae, non parliamo di migranti, ma di persone nate in Italia e che qui hanno compiuto un ciclo scolastico. E, nel merito, io penso che una società che non aspetta il 18esimo anno d’età per riconoscere a un giovane nato in Italia e che si è formato qui la cittadinanza sia una società più solida e meno debole. Lo dico da ministro dell’Interno. Di recente, sono stato a premiare i migliori del corso Allievi dell’Arma dei Carabinieri. Ebbene, il primo del corso era un ragazzo nato in Italia da genitori indiani. E io mi chiedo: perché rispetto a ragazzi con queste qualità, che hanno costruito un rapporto prezioso col Paese nel quale sono nati, si deve attendere i 18 anni per la concessione della cittadinanza? Il rischio, se non si risponde positivamente a una domanda sacrosanta, è quello dell’allontanamento. Il non riconoscimento può produrre come effetto la ricerca di un’identità diversa...
Ci sono le condizioni politiche affinché la legge sia approvata entro fine legislatura?
Lo dico con nettezza: credo che si debba fare di tutto per approvarla, anche così com’è, in questa legislatura. Più difficile sarebbe correggerla, perché si accorcerebbero i tempi parlamentari per approvarla.
Con quali voti, visto che Ap è contraria? Quelli fuori dalla maggioranza, verdiniani compresi?
In generale, sarebbe bene che la maggioranza resti unita. Tuttavia, una questione di principio così rilevante, su cui io mi sento personalmente impegnato, interpella il Parlamento e la coscienza di ogni singolo parlamentare. La Costituzione, proprio per lasciare libertà su temi alti come questo, non prevede il vincolo di mandato. E io ritengo che su questo disegno di legge ognuno, come gruppo politico e individualmente, debba assumersi le proprie responsabilità. In più, aggiungo, lo ius soli ha a che fare col tema dell’integrazione.
Una sfida rispetto alla quale lei, come ministro, ha proposto un Piano nazionale. Con quale obiettivo?
È la prima volta che in Italia si presenta un piano di questo tipo del genere, fondato su un rapporto fra diritti e doveri. Nel documento vengono riconosciuti dei diritti, ma con l’ambizione di trasmettere un messaggio. Un Paese come l’Italia, forte e fiero dei propri valori (sintetizzabili, a mio parere, nella prima parte della Costituzione) non si presenta alla sfida dell’integrazione con la bandiera logora e bucata. Mi riferisco a un percorso fatto di lingua, cultura, formazione per il lavoro, sanità, verso coloro che sono stati riconosciuti come rifugiati. È un terreno vitale per i prossimi 15 anni. E potrà avere riflessi positivi nel contrasto al terrorismo di matrice integralista. Basti pensare al fatto che la maggior parte degli attacchi terroristici in Europa negli ultimi due anni siano stati compiuti da persone cresciute in Paesi Ue, ma rimaste ai margini dei processi di integrazione.
In uno scenario di continui attacchi terroristici in Europa, l’allarme per l’Italia resta altissimo? Alcuni attentatori, come Amri e Hanachi, erano stati nel nostro Paese. Siamo una retrovia logistica o nel mirino come gli altri Stati?
Il quadro della minaccia in Italia rimane alto. Non possiamo sottovalutare nulla. Ma abbiamo capacità d’intelligence, investigative, di controllo del territorio, che affondano le loro radici nell’azione vincente di contrasto al terrorismo interno e a quello mafioso. Niente viene lasciato al caso. Con la consapevolezza di chi lavora per il mai, sapendo perfettamente che non si può mai dire mai.
I migranti continuano a sbarcare, ma la macchina dell’accoglienza non sempre funziona a regime. E inchieste giudiziarie come quella sul centro di Isola Capo Rizzuto hanno messo in luce episodi di malagestione, corruzione e malaffare sulla pelle di profughi e rifugiati.
L’inchiesta sul centro di Isola Capo Rizzuto per me è un’indagine modello. Ma noi siamo intervenuti prima che deflagrasse quel caso, cercando di cambiare modello di gestione, passando all’accoglienza diffusa, distribuita cioè in piccoli numeri sui territori, in un rapporto coi comuni. I piccoli numeri sono fondamentali, sia per l’integrazione sia perché riduci di portata i grandi appalti milionari che potrebbero far gola ai gruppi criminali. Il mio obiettivo è andare verso il superamento dei grandi centri d’accoglienza, superare Isola Capo Rizzuto, superare Mineo, per passare a strutture piccole e meglio gestibili. Abbiamo firmato un protocollo con l’Anac del dottor Raffaele Cantone per il superamento del Gestore unico delle procedure d’appalto, per la separazione delle varie forme di attività e per accrescere i poteri ispettivi delle prefetture, che in ogni caso periodicamente già venivano esercitati. Inoltre, da maggio abbiamo avviato un’azione di monitoraggio capillare, struttura per struttura, investendo 4 milioni di euro di fondi europei e mettendo in campo personale specializzato per valutare (con 2mila ispezioni in 18 mesi) correttezza e qualità dei servizi offerti. Complessivamente, sommando quelle ordinarie delle prefetture e queste ultime, finora siamo a un migliaio di ispezioni effettuate, riscontrando alcune situazioni limite (a cui abbiamo provveduto con diffide e rescissione di contratti) ma anche diverse situazioni di qualità.
Quando potreste chiudere i grandi centri?
I tempi dipendono da due fattori. Il primo è quanti comuni aderiranno all’accoglienza diffusa: 1.100 su 8mila hanno aderito al sistema Sprar, circa tremila al sistema complessivo d’accoglienza. Se tutti aderissero, i centri di grandi dimensioni sarebbero inutili.
E il secondo fattore?
Chiaramente, è legato all’entità dei flussi migratori. Se riusciamo a farli scendere considerevolmente, potremo farlo in tempi rapidi. Altrimenti, sarà più complicato. In ogni caso, agiremo con verifiche e ispezioni: non dobbiamo consentire che qualcuno pensi che, proprio nell’assistenza a persone deboli ed esposte come profughi e richiedenti asilo, si possano infiltrare ancora mafie e reti criminali. Per difendere le buone pratiche d’accoglienza, come io voglio fare, è doveroso separare il grano, che è tanto, dalla zizzania del malaffare, che va estirpata. È una delle battaglie che sto conducendo. Ma la principale è quella per cancellare il termine 'emergenza' dalla questione migratoria. Come si fa a gabellare come un fatto emergenziale le migrazioni, che rappresentano un elemento strutturale delle società attuali? Se continuiamo a definirla tale, daremo ai populisti un grande vantaggio, quello di rappresentarsi come i potenziali salvatori della situazione. Io preferisco lavorare, un passo dopo l’altro, per governare il fenomeno. E la parte fondamentale della partita si gioca in Africa, non soltanto in Libia. L’Africa, per me, è lo specchio dell’Europa intera: se sta male, se soffre, anche i nostri Paesi staranno male...
Cosa serve per ridurre i flussi migratori dal continente africano?
Un intervento di medio periodo, ma adeguatamente finanziato. Se, per governare i flussi sulla rotta balcanica, l’Ue ha deciso di stringere un accordo con la Turchia del presidente Erdogan, mettendo sul tavolo 3 miliardi di euro e promettendo una seconda tranche di altri 3, è lecito immaginare un impegno finanziario con un budget simile per l’Africa. E invece oggi c’è un trust fund , con poche centinaia di milioni di euro. Perché? Eppure l’Europa, investendo in Africa, farebbe solo il suo interesse: se governa i flussi, non consegnerà le vite di centinaia di migliaia di persone, e le chiavi di accesso al nostro continente, ai trafficanti di esseri umani. Se ciò avvenisse, si potrebbero ufficializzare e ampliare anche i canali umani-tari, ora attivati in via sperimentale su piccoli numeri grazie all’iniziativa della Cei e di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e Tavola Valdese.
Perché, in cinque anni di legislatura, come maggioranza non avete riaperto la porta dei decreti flussi, sbarrata ingiustamente dalla legge Bossi- Fini?
Sulla questione migratoria, è necessario avere una visione complessiva. Se si controlla e si arresta il traffico illegale, si potrà riaprire quello legale, con quote di migranti economici che entrano attraverso accordi bilaterali coi Paesi di provenienza. Ma se io, quando mi sono insediato al Viminale 10 mesi fa, di fronte a 181mila persone entrate irregolarmente in Italia con gli sbarchi – più 18% rispetto all’anno prima –, avessi detto 'apriamo subito canali di ingresso legale', in molti avrebbero chiamato l’ambulanza, prendendomi per matto. Avrei dimostrato di essere un pessimo politico, che non ha alcun rapporto con l’opinione pubblica. Dovevo prima dimostrare di saper governare i flussi illegali, come stiamo facendo d’intesa con le autorità libiche, per guadagnarmi sul campo quella credibilità politica da investire poi anche nella riapertura dei flussi legali. Non intendo aprire un’autostrada ai populisti, sono un riformista, ho una visione e lavoro per metterla in campo a suon di fatti, un passo dopo l’altro: stabilizzazione della Libia; piano per l’Africa; corridoi umanitari per i rifugiati; ripristino delle quote d’ingressi legali. Se questa visione funziona, avremo costruito un modello. Non so se ce la faremo: lavoriamo sul filo del rasoio, in qualunque momento, in un quadro internazionale così travagliato, può succedere qualcosa che cambi lo scenario. Ma ho, abbiamo il dovere di provarci. Anche per dare lo sprone alla Ue: l’Italia, impegnata dal 2013 nei salvataggi in mare e nell’accoglienza, poteva limitarsi alla posizione di chi lamenta: l’Europa dovrebbe fare di più. Invece, abbiamo fatto, anche sul fronte internazionale. E, nel momento in cui l’Italia fa, impegna l’Ue a fare di più.
A fare cosa, in concreto? Sul ricollocamento dei rifugiati e sulla revisione di Dublino, finora poco si è mosso.
Però va registrato un deciso cambio di sensibilità. Quando andai a discutere per la prima volta con gli altri ministri dell’Interno europei, per loro il problema era l’Italia, non certo l’Africa, era come affrontare il problema dell’accoglienza in Italia, evitando che ci fossero movimenti 'secondari' dei profughi in altri Stati. Erano preoccupati per gli hot spot italiani. Ora, lo scorso 28 agosto, i principali Stati Ue hanno votato un documento sull’Africa senza precedenti. Stimolati anche dall’azione dell’Italia.
Il fatto che l’Europa abbia accordi col governo eritreo, una delle peggiori dittature dopo la Corea del Nord, e col Sudan, retto da un altro dittatore, inviando loro fondi, è inquietante. Perché quegli accordi resistono?
Sul terreno non certo agevole degli interlocutori in Africa, abbiamo cercato di costruire un metodo. Abbiamo firmato un accordo col governo libico, riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’Onu, del presidente Fayez al-Serraj. Poi abbiamo cercato di rafforzare le relazioni coi Paesi della cintura subsahariana interessati, come noi, a governare i flussi. Per me, il confine meridionale della Libia continua a essere il confine meridionale dell’Europa: abbiamo coinvolto fra gli altri Niger, Ciad, Mali... Sappiamo bene che, quando ci si muove in certi Paesi, lo si fa su un terreno delicato. Ma sul piano diplomatico abbiamo ritenuto importante coinvolgere anche Paesi che mostrassero impegno e volontà di uscire da gestioni della cosa pubblica non più accettabili dal nostro punto di vista.
Non è un grave paradosso che si indaghino le Ong che salvano persone in mare, mentre i boss dei traffici dal Nordafrica, sudanesi, eritrei, nonostante si conoscano i loro nomi, sono ancora a piede libero? Non si possono almeno congelare le loro ricchezze, spesso investite in Paesi occidentali?
Lo scorso 30 agosto, una delegazione della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo si è recata a Tripoli per lavorare a un protocollo di azione comune a livello di magistratura e polizia giudiziaria nel contrasto ai trafficanti di esseri umani. È un inizio, non certo un punto d’approdo, ma necessario.
I sindaci delle città libiche sono in qualche modo espressione di un territorio che ha avuto nei traffici illeciti (uomini, armi, idrocarburi) la principale fonte di reddito, mentre migliaia di migranti restano bloccati nelle prigioni clandestine.
È un punto su cui riflettere: in questi anni, in Libia, l’unica impresa che ha funzionato è stata quella, maledetta, del traffico di esseri umani. Per debellarla davvero, com’è giusto fare, è anche necessario pensare di offrire a tribù e milizie locali un’alternativa. Quando ho incontrato i sindaci delle principali città libiche interessate dai traffici, ho visto in loro il desiderio di affrancarsi da questa situazione, un sentimento direi di 'rottura morale': si sono presentati con degli action plans, che avevano come primo punto l’aiuto ai migranti presenti in Libia. Mi sono parsi convinti che sia possibile un riscatto. Anche perché credo che nessun Paese piaccia il fatto di avere sulla propria testa la hýbris permanente del traffico di esseri umani. Dico di più: la comunità internazionale deve avere verso la Libia un atteggiamento di apertura, sapendo che quel Paese paga ancora l’intervento militare occidentale, deciso senza avere un progetto di ricostruzione per il dopo. Bisogna interagire con la Libia, con l’apertura mentale di chi lavora per la ricostruzione di un Paese.
Nel frattempo però cosa accade alle migliaia di migranti trattenuti nei centri di detenzioni libici? L’Acnur, che li ha visitati a luglio, denuncia situazioni molto gravi.
La situazione è complessa, ne sono consapevole. In Libia bisogna fare un doppio movimento. Il primo è quello di sconfiggere i trafficanti e fermare i flussi illegali, controllando un’area cruciale perché da quella frontiera, quando lo Stato islamico sarà sconfitto anche a Raqqa, potrebbero decidere di passare i foreign fighters di ritorno in Europa. Il secondo è stabilizzare il Paese, perché ripristinando le autorità si supererà la situazione di "Stato debole" in cui imperversano i trafficanti. Sarebbe semplice dire: prima stabilizziamo la Libia. Ma il problema è: se prima non si contrasta la tratta di migranti, non si stabilizzerà il Paese. Noi siamo intervenuti per governare i flussi, partendo dall’addestramento della Guardia costiera, dalla formazione degli equipaggi condotti da personale italiano ed europeo. Da quel momento, la Guardia costiera libica è intervenuta sulle proprie coste, riuscendo a salvare finora, in alcuni casi da morte sicura, 16.800 persone. E quando affrontiamo il problema delle condizioni di vita dei migranti nei campi, dobbiamo essere consapevoli che non sia nuovo, giacché esiste sin dai tempi di Gheddafi. La Convenzione di Ginevra c’è da 66 anni, ma la Libia non l’ha ancora firmata. E la comunità internazionale aveva rapporti col regime del Rais, senza farne un problema. Il passo in avanti, oggi, è che per la prima volta l’Oim e l’Acnur possono andare in territorio libico e ispezionare i campi. È poco? Sì, pochissimo. Ma è un passo in avanti. Il 15 settembre abbiamo riunito il tavolo italo-libico, alla presenza di Oim e Acnur, che ha presentato un progetto in avanzata fase di realizzazione, che prevede la costruzione in Libia, d’intesa con le autorità locali, di un primo centro di accoglienza per persone che hanno diritto allo status internazionale di rifugiato. Inoltre, hanno individuato un primo gruppo di un migliaio di persone fra le più fragili (donne, bambini e anziani) da trasferire poi in Paesi terzi di tutto il pianeta, che li ospiteranno. Aggiungo che l’Oim ha già fatto 7.300 rimpatri volontari e assistiti di migranti verso i Paesi di provenienza, dove un piccolo budget consentirà loro di rifarsi una vita. Ed entro fine anno, quei rimpatri saranno 15-20mila. Un modo per aiutare anche i cosiddetti migranti "economici". Capisco che è più facile vedere l’immensità del mare che una singola goccia. Ma io mi occupo, come ministro dell’Interno, di mettere goccia su goccia. E quindi per me, ogni singola iniziativa è importante.
In Libia ci sono anche centinaia di migliaia di sfollati interni.
È così. E noi riteniamo che si debbano realizzare là le condizioni per farli vivere meglio. Finora su questo non si è lavorato. La sfida è quella di interagire con le Ong anche su questo terreno: la Farnesina ha emanato un bando per finanziare interventi delle organizzazioni non governative in Libia. E io ho un sogno: che presto possano partecipare anche delle ong con personale libico, magari partendo da un migliaio di giovani che non vuole emigrare o farsi reclutare dalle milizie locali, ma contribuire a creare le condizioni di rinascita della propria terra.
In seguito all’emanazione del cosiddetto Codice per gli interventi in mare, i rapporti fra ong e il Viminale non sono stati idilliaci.
Io considero le organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo un punto di forza. Il Codice che io ho voluto, d’intesa con la Commisione europea, era per me un modo di evitare ambiguità e generalizzazioni, garantendo diritti e doveri di chi opera nei salvataggi in mare e del Paese che li accoglie. Non è un caso che su 8 ong, lo abbiano fermato in 6. Non c’era alcuna volontà punitiva. Anzi, l’obiettivo era ed è evitare generalizzazioni negative e tutelare chi fa un lavoro prezioso, costruendo un solido rapporto tra chi contribuisce ai salvataggi in mare e il Paese che accoglie. C’è obiettivamente una contraddizione tra l’azione internazionale di salvataggio in mare e l’approdo in terra, che riguarda esclusivamente un solo Paese, l’Italia. In un angolo del mio cuore ho un’aspettativa: che un giorno, una nave delle Ong possa, anche solo simbolicamente, tentare di attraccare in un altro porto europeo. Sarebbe un segnale importante di solidarietà verso il nostro Paese.
La nuova rotta dalla Tunisia la preoccupa? Come state agendo per contrastarla?
C’è un significativo rafforzamento dei flussi dalla Tunisia. Tuttavia, in cifra assoluta i numeri non sono nemmeno paragonabili a quelli che abbiamo avuto dalla rotta libica. Né tantomeno sembrano segnalare una via sostitutiva. Abbiamo una forte cooperazione con la Tunisia nel campo del contrasto all’immigrazione illegale, che stiamo ulteriormente rafforzando. La prossima settimana si terrà una riunione del comitato italo tunisino per mettere in campo nuove iniziative sia sul terreno del contrasto sia per i rimpatri. E abbiamo rafforzato la vigilanza aereonavale lungo la rotta. Proprio oggi la Guardia di Finanza ha arrestato uno scafista e sequestrato l’imbarcazione. Analogo percorso stiamo seguendo con l’Algeria: nelle scorse settimane, sono andato personalmente ad Algeri.
Ministro, torniamo in Italia per soffermarci sul contrasto alla criminalità organizzata. Il Codice antimafia, varato dal Parlamento, ha scatenato polemiche, anche per l’estensione del sequestro preventivo di beni a casi di presunti reati contro la P.A. Lei che giudizio ne dà?
Sono netto: il mio giudizio è positivo, si è fatto bene a portarlo a casa. Sarebbe stato un peccato mortale, dopo tanto dibattito parlamentare, non approvarlo, rischiando di dover ricominciare daccapo nella prossima legislatura. Parliamo di questioni delicatissime, come la prevenzione e il contrasto ai gruppi mafiosi. Dal mio punto di vista, il Codice introduce misure importante sul terreno della gestione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, normando l’attività dell’Agenzia che se ne occupa, per facilitarne il riuso. Una questione cruciale, se lo Stato vuole combattere i clan. È lo Stato alla Robin Hood, mi verrebbe da dire, che toglie alle mafie e restituisce alla collettività. Sarebbe un modo per far crescere il coinvolgimento dell’opinione pubblica.
Perché, ritiene che la società italiana non sia a fianco dello Stato nella lotta alle mafie?
Non dico questo. Da ministro dell’Interno, ritengo però che oggi non siamo al picco del coinvolgimento dell’opinione pubblica. Abbiamo l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura, quella dell’associazionismo tipo Libera. Ma nell’opinione pubblica non c’è un coinvolgimento come quello toccato in anni passati. Togliere le ricchezze ai mafiosi e restituirle alla collettività, amministrandole bene e senza perdere occupazione, potrebbe essere un modo per irrobustire quel sentimento.
Per il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, il Codice equipara l’imprenditore a un delinquente.
Io non lo penso. Ritengo che l’intento del legislatore non sia stato quello. Al contrario, il Codice punta ad agevolare quegli imprenditori che davvero desiderano agire nel libero mercato, punendo coloro che lo condizionano per finalità criminali. E credo che, su questo, si possa rinsaldare un’alleanza con Confindustria. Ma vorrei aggiungere una cosa: anche chi non è un giurista intende la differenza che passa fra reati di mafia e reati corruttivi. Sarebbe una sciocchezza sesquipedale dire che tutti i corrotti sono mafiosi. Ma tutto ciò è mafioso porta con se la corruzione. A parte il ragionamento sui cosiddetti reati-spia, pur di non poco conto, non possiamo porci un problema: la battaglia contro la corruzione è un pre-requisito per rendere una società più sana. E quindi più forte contro l’aggressione e l’infiltrazione delle mafie. Aggiungo che, per sconfiggere i boss, isolarli, privarli del loro potere, si deve far luce sulla zona grigia di legami col mondo della politica.
La battaglia contro i boss si combatte anche sul piano simbolico. Pensiamo al Santuario di Polsi, in Aspromonte, dove l’azione della Chiesa locale ha allontanato le ombre della ’ndrangheta e dei suoi rituali.
Debbo dare atto alla Chiesa italiana, in questo caso al vescovo di Locri monsignor Francesco Oliva, di aver avuto intuizione e coraggio. Io stesso sono intervenuto per partecipare a un’iniziativa a Polsi, la prima volta credo che un ministro dell’Interno sia stato lì ufficialmente. È una delle iniziative più importanti alle quali ho preso parte in questi 10 mesi alla guida del Viminale. Ed è un’esperienza emblematica dell’alleanza che, sul terreno sociale della lotta alle mafie, si è costituita fra lo Stato e la Chiesa cattolica.
La ’ndrangheta resta la mafia più temibile?
Sì. È quella più "glocal", capace di insidiare i territori in cui si radica, dal piccolo comune aspromontano al capoluogo del Nord, ma anche di controllare i traffici internazionali di cocaina, che l’hanno resa ricchissima. Ma non è uno strapotere: le inchieste giudiziarie e quelle investigative stanno mettendo a segno colpi importanti, spero decisivi.
Cattura dopo cattura, la lista dei super latitanti nel sito del Viminale si assottiglia. Ma in cima resta il boss siciliano Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993. Cosa lo protegge? Un’inchiesta sul clan Rinzivillo ha svelato perfino presunte complicità di ex agenti dei servizi...
Uno Stato che si rispetti non tollera latitanti, soprattutto grandi latitanti. L’obiettivo di catturare Matteo Messina Denaro è in cima alla nostra lista, è il primo degli obiettivi che ci siamo dati. E non ci fermeremo finché non l’avremo raggiunto. Le inchieste giudiziarie, un arresto dopo l’altro, gli hanno fatto terra bruciata attorno, hanno reciso i cordoni ombelicali attraverso cui esercitava il suo potere di boss. Resta pericoloso, ma meno capace di incidere nella realtà. Abbiamo squadre investigative che lavorano solo su questo, 24 ore su 24, in sinergia con le procure interessate. Lo troveremo. E quando verrà catturato, sarà un bel giorno per la Repubblica italiana.