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Il caso. Italia-Libia, intesa e segreti. Tra diritti violati e contrabbando di petrolio

Nello Scavo venerdì 1 novembre 2019

Il documento con cui le autorità italiane ribadiscono il segreto sui rapporti con la Libia

Ogni conflitto ha il suo tariffario. In Libia si paga nella valuta sudicia dei diritti umani calpestati, in quella sporca del petrolio contrabbandato a tonnellate verso un’Europa che lascia sbarcare i barili di frodo ma abbandona in mare i naufraghi. E negli euro che ricoprono d’oro i capi milizie.

Solo a settembre sono stati assegnati per la sola area che va da Tripoli al confine con la Tunisia oltre 5,7 milioni di euro ai combattenti che sostengono il governo del premier al-Serraj contro l’avanzata del generale Haftar. Tra i principali beneficiari le brigate al Nasr, del clan a cui appartiene Bija, guardacoste e presunto trafficante, guidato dai fratelli Koshlaf. Una cifra colossale in un Paese dove il carburante costa 10 cent.

Alcune fonti in loco sostengono che, per come viene spesa quella montagna di soldi, bastano appena per qualche settimana di scontri. Un cortocircuito che mostra come Tripoli sia diventato un labirinto senza uscita per i governi europei che finanziano indirettamente i clan libici. I documenti visionati da Avvenire - vedi le due foto - confermano l’accordo nero su bianco e risalgono all’estate appena trascorsa.

Ma non è l’unico segreto sull’asse Bruxelles-Roma-Tripoli. Anche sulle relazioni tra le guardie costiere europee e quella libica continua a prevalere la linea d’ombra. Ancora una volta, dopo una delle numerose richieste di accesso agli atti indirizzata alle autorità italiane, la risposta è quella solita: segreto di Stato.

L’avvocato Alessandra Ballerini, per conto dell’Associazione Diritti e Frontiere, aveva chiesto chiarimenti sul caso "Ocean Viking", la nave di Medici senza frontiere e Sos Mediterranée, rimasta in ostaggio del solito flipper tra cancellerie europee. E così dal Comando delle Capitanerie di porto fanno sapere che la documentazione «investe rapporti con altri Stati, in specie Libia e Malta, i quali potrebbero sentirsi lesi nelle proprie prerogative dalla scelta italiana di ostendere atti recanti informazioni che possono in qualche modo riguardarli con il conseguente concreto pregiudizio ai rapporti che intercorrono tra Stati ed alle relazioni tra soggetti internazionali (Governo libico e maltese)».

Cosa ci sia da nascondere, se le norme internazionali sono state rispettate, non è dato da sapere. In altre parole, «le ragionevoli aspettative di confidenzialità dei diretti interessati» prevalgono ancora una volta sulla trasparenza.

Anche gli accordi tra Roma e Tripoli, in corso di imminente rinnovo, hanno molti capitoli coperti dal segreto nella parte attuativa. Si sa, ad esempio che «la parte italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del Ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’Interno».

Ma come avvengano i finanziamenti e chi ne controlli l’effettiva destinazione finale nessuno lo sa. Ancora più anomalo che il Memorandum Italia-Libia non sia stato mai votato dal Parlamento.

«Sono stati usati i soldi dei contribuenti della cooperazione per l’Africa per creare una guardia costiera che fa quello che noi, Paese occidentale, non possiamo fare: violazione sistematica dei diritti umani», dice Antonello Ciervo, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

Un capitolo riguarda, a parole, il contrasto al contrabbando di petrolio. Davanti alle coste di Zuara e Zawyah, intanto, ci sarebbero 236 navi adoperate per l’export illegale di idrocarburi. La notizia, rivelata da Euronews, non sembra allarmare le autorità Ue.

I sequestri di greggio esportato illegalmente sono una rarità. La cosiddetta guardia costiera libica, infatti, è più impegnata a catturare migranti da riportare nei campi di prigionia, anziché concentrarsi sulle continue rapine di oro nero. Forse, come sostengono gli investigatori Onu, perché a gestire gli affari sporchi sono i clan.

A pagare sono sempre i più deboli. Per l’Alto commissariato Onu per i diritti umani, una volta «intercettati in mare dalla Guardia costiera libica i migranti vengono rimpatriati in quel Paese. Vengono trasferiti in centri di detenzione sia ufficiali che ufficiosi». E lì sono sottoposti «non solo alla detenzione arbitraria indefinita, ma anche – si legge nel report della settimana scorsa – a gravi violazioni dei diritti umani come tortura e maltrattamenti, estorsioni, abusi e sfruttamento sessuale, tratta e traffico di esseri umani».