L'impegno. I movimenti cattolici in campo: «Genitori si può diventare»
Francesco Scoppola
Azione Cattolica. «Tutte le difficoltà portano in famiglia»
Lisa Buonanno e Andrea Dessardo - Collaboratori
(Lisa Buonanno e Andrea Dessardo - Azione Cattolica) Nicolò ha oggi quattordici mesi: cammina, gioca in autonomia, manifesta una sua personalità definita. Per lui quattordici mesi rappresentano tutta la complessità della vita, per noi adulti invece sono quasi un soffio, tempo che passa via inconsistente fra le preoccupazioni di ogni giorno. Nella decisione di mettere al mondo dei figli il tempo veloce dell’infanzia e quello dell’età adulta inevitabilmente s’intrecciano. La vita di oggi, però, purtroppo non è pensata sui ritmi dei bambini, rendendo ciò che da secoli era considerato un diritto insopprimibile di ogni persona – garantirsi una successione – un potenziale ostacolo allo sviluppo del proprio progetto di vita. In particolare per le giovani donne.
La nostra storia familiare assomiglia a quella di tante altre coppie di nostri coetanei. Gli studi universitari come quasi un obbligo per dare consistenza al curriculum, la ricerca della stabilità nel lavoro attraverso anni e anni di precariato, nel nostro caso anche il trasferimento da Trieste a Roma, senza poter contare sul conforto della famiglia e degli amici. Tra le nozze e la nascita di Nicolò sono trascorsi sei anni e sette giorni: ma questo forse soltanto perché non abbiamo voluto rimandare le nozze a tempi più sicuri. Se la proposta di matrimonio è stata fatta in uno slancio di ottimismo forse incosciente – Lisa aveva iniziato il Servizio civile da appena tre giorni –, la decisione di avere un bambino è stata invece assai più meditata, il punto finale di un lungo percorso di maturazione come coppia e come individui, lasciando però sempre l’ultima parola alla Provvidenza, nelle cui mani ci siamo consegnati.
I primi mesi di matrimonio Andrea faceva il pendolare fra Trieste e Roma (sei ore di treno) ogni settimana del calendario accademico, lontano da casa dal martedì all’alba a giovedì sera; nei week-end Lisa lavorava quasi sempre, con orari che cambiavano continuamente rendendo impossibile programmare il tempo insieme. L’estate successiva Lisa maturò la decisione assai sofferta di lasciare il lavoro per trasferirci insieme a Roma. Per più di un anno è rimasta a casa, vivendo mesi di profondo avvilimento: diventare mamma in quel momento sarebbe stato per lei, che aveva sempre desiderato una carriera, un ripiego, una seconda scelta. Ha resistito con grande dignità e forza e alla fine ce l’abbiamo fatta, superando una fase di dura prova per il nostro rapporto, allora decisamente sbilanciato.
All’inizio del 2019, dopo quasi un anno e mezzo, Lisa è stata assunta: prima per sei mesi, poi per altri sei, poi un anno. E nel 2021 è arrivato il sospirato contratto a tempo indeterminato. Nel frattempo Andrea, assunto nel 2016 per tre anni, riceveva una proroga di due anni nel 2019 e poi un altro contratto triennale nel 2021: e allora, dopo quattro anni in affitto, sembrò naturale la scelta di comprare casa (la prima veramente nostra, dopo già cinque anni di matrimonio) e provare a radicarci davvero a Roma. Con la casa – scelta con cura, finalmente arredata come piace a noi – la serenità per pensare a Nicolò, che avevamo sognato fin dall’inizio ma che non avevamo ancora osato desiderare.
Ed eccoci qua ora, col contratto di Andrea nuovamente in scadenza. Sono mesi di cui temiamo il trascorrere, ma che da genitori passano in una successione continua di scoperte e stupori, che ci confermano ogni giorno che è la famiglia ciò per cui siamo fatti e per cui, in fondo, vale la pena attraversare tutto questo.
Comunione e Liberazione. «Scoprire tra coppie il fascino della vita»
Luca Sommacal - Collaboratori
(Luca Sommacal - presidente Famiglie per l’accoglienza esperienza di Cl) Maternità come “missione” e come massima aspirazione per le ragazze più giovani: il dibattito in corso ci porta direttamente nel vivo di una delle problematiche più allarmanti e contraddittorie dei nostri giorni: da un lato la difficoltà (a volte proprio l’impossibilità) di pensare a metter su famiglia e sostenere la conciliazione maternità-lavoro, dall’altro il preoccupante calo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione. Ma ancora prima, forse, occorre domandarsi se non sia meglio parlare di maternità e paternità, cioè avere dei figli come “scelta” condivisa tra due persone che decidono di intraprendere la straordinaria avventura dell’essere genitori. Nella nostra esperienza di associazione di famiglie adottive e affidatarie incontriamo molte giovani coppie che vivono il grande desiderio di avere figli e che maturano la disponibilità ad accogliere un figlio non nato da sé, a spalancare le porte a un altro ignoto, che diventa inequivocabilmente parte integrante della propria vita. Il cammino verso questa disponibilità approfondisce e arricchisce la dimensione generativa del rapporto coniugale: una relazione che si sviluppa come accoglienza e apertura oltre i propri limiti.
Per chi percorre questa strada si fa via via più chiaro che accogliere dei figli e metterli al mondo è una grande testimonianza di speranza e una responsabilità che non riguarda solo noi stessi ma ci proietta oltre: è un “prendersi cura del mondo”. Le parole del Papa in Amoris laetitia aiutano bene a comprendere il fascino di questa prospettiva: «Nella loro unione di amore gli sposi sperimentano la bellezza della paternità e della maternità; condividono i progetti e le fatiche, i desideri e le preoccupazioni; imparano la cura reciproca e il perdono vicendevole. In questo amore celebrano i loro momenti felici e si sostengono nei passaggi difficili della loro storia di vita. [...] La bellezza del dono reciproco e gratuito, la gioia per la vita che nasce e la cura amorevole di tutti i membri, dai piccoli agli anziani, sono alcuni dei frutti che rendono unica e insostituibile la risposta alla vocazione della famiglia». C’è, dunque, un patrimonio di bene che deve essere riscoperto, nuovamente guardato e valorizzato. Le oggettive difficoltà che oggi i più giovani incontrano nel cercare di creare una famiglia, le penalizzazioni che ancora scontano le madri lavoratici, la carenza di politiche familiari strutturali e permanenti vanno considerate e affrontate. Ma nell’impegnarci per superare questi ostacoli dobbiamo farci interrogare dalla questione nella sua essenza: mettere al mondo o crescere dei figli è avere la certezza di una promessa buona. È trasmettere una speranza sul futuro piuttosto che la paura o, peggio, la rassegnazione nell’affrontare l’incerto. Ma come fare? Non si può imporre o applicare come una formula meccanica; è una fiducia che va educata e fatta maturare come esperienza prima di tutto dentro le stesse famiglie, che possono – per contagio, per osmosi, per passione – riscoprirsi luoghi di incrocio di generazioni, di apertura alla vita, spazio di crescita e di condivisione. Cosicché il fascino del mettere al mondo e accogliere un figlio possa sempre più investire le giovani coppie. È una consapevolezza che può maturare in modo più pieno se accompagnata da una rete amicale tra famiglie che sostiene la speranza come concezione del futuro, che testimonia una pienezza umana possibile e che quindi attrae e dà il coraggio per accogliere nuove vite.
Fuci. «Va creata armonia tra tante scelte»
Clara Pomoni - Collaboratori
(Clara Pomoni - condirettrice di "Ricerca", presidenza nazionale Fuci) ) La maternità, la paternità, come altre scelte di vita sono aspetti di una vocazione che ciascuno sente per sé, unica e originale. Per questo non posso parlare a nome di altre. Lo slancio insito nell’essere umano è all'essere generativo, anche ma non solo come madri e padri. “Dare vita” è dare la propria vita per qualcuno, è dar vita a qualcuno o qualcosa di nuovo, è fare in modo che altri possano vivere pienamente la propria esistenza. Implica la relazione con qualcuno o qualcosa che ci “eccede”, è oltre noi. L’imperativo invece uccide, così come ogni pretesa e aspettativa dall’esterno, che diventa giudizio a volte dilaniante.
Una società che chiede alla donna di adeguarsi agli standard (di un modello pensato da uomini) non è equa né inclusiva. Se le condizioni materiali e culturali non permettono di realizzare in armonia le varie dimensioni della vita, siamo costretti a scegliere quale dimensione privilegiare: la formazione? L’impegno professionale o sociale? Le amicizie? La famiglia?
La maternità è una delle dimensioni della donna, ridurla alla principale è come guardare a una parte del corpo e non a tutta la persona, con il rischio di strumentalizzarla e insieme perdere gli altri frutti che può portare in altri campi. Mettere in competizione la crescita relazionale con la formazione e l'impegno nello studio e nel lavoro, averle come alternative, porta a perdere una o l'altra, dimensioni invece irrinunciabili perché ciascuno si realizzi pienamente. Parlo volutamente mettendo insieme maschile e femminile perché il desiderio di genitorialità si realizza in un progetto condiviso, l’essere genitori avviene come dono e responsabilità reciproca. Il ridurlo a una determinazione personale, un obiettivo, fa sì che dalla sua eventuale mancanza si generi immensa frustrazione e tristezza. La mancata maternità è ancora troppo spesso oggetto di vergogna, di colpevolizzazione almeno implicita della donna (mentre si considera molto meno la possibilità di infertilità maschile), di accanimento per ottenere una gravidanza o un figlio. Così da perdere di vista l'orizzonte di senso pur di raggiungere l’obiettivo fissato. E poi? La nascita, il diventare madri e padri è davvero una gioia travolgente, trascendente?
Il bambino non è proprietà dei genitori, è responsabilità di tutti contribuire a prendersene cura. Per crescere un bambino ci vuole un villaggio, ma il villaggio è pronto ad accogliere un bambino? Cosa fa per rendersi ospitale? Oltre a diritti e sussidi appropriati, sento carente la motivazione, la direzione fondante di senso che orienta e alimenta il desiderio di essere famiglia e quindi madre, padre. Nella mia generazione in Italia rischia di essere più presente il peso di una ricerca ansiosa che non lo slancio fiducioso verso il futuro, per sé stessi, figuriamoci per altri. Una giovane universitaria alle prese con il percorso accademico, in ricerca rispetto al suo percorso di vita, incerta su un futuro che sembra così ampio da essere destabilizzante, quanto può sentire vicina la prospettiva della maternità?
Più che la bellezza dell’essere madri ne sentiamo la delicatezza, con la consapevolezza dell’impatto che i genitori hanno sui figli ci chiediamo come poter essere genitori, visto che non sempre abbiamo avuto esempi di genitorialità virtuosa. Nonostante ciò, la maternità resta una meravigliosa predisposizione insita nella donna. Chiarito che una ragazza non si realizza solo diventando mamma, qualunque donna che abbia il desiderio di diventare madre andrebbe sostenuta in questa scelta. Ogni donna ha questa meravigliosa opportunità e capacità: generare la vita. Anche, ma certamente non solo, con una gravidanza.
La fragilità di relazioni e modelli non aiuta a compiere scelte definitive e vincolanti come quella di diventare genitori. Forse possiamo incentivare un cambiamento per promuovere la vita anche educando la nostra affettività e lavorando per far spazio alla speranza nel futuro.
Agesci. «Educhiamo a essere capaci di futuro»
Roberta Vincini - Collaboratori
(Roberta Vincini e Francesco Scoppola - presidenti del Comitato nazionale Agesci) L’esperienza scout porta a scoprire che si è parte di una grande famiglia allargata, in cui lo spirito con cui si affrontano anche le situazioni problematiche che la vita ci pone sia quello di “andiamo, non vai, se vuoi che una cosa sia fatta”. Questa certezza del fatto che non ci si salva da soli crediamo possa essere la modalità attraverso cui i ragazzi e le ragazze, una volta cresciuti, come uomini e donne sapranno affrontare le sfide della vita, non certo ultima quella di essere famiglia, di essere padri e madri capaci di vivere con equilibrio il proprio ruolo familiare, lavorativo e sociale.
Cogliendo la valenza sociale e politica di una proposta che educa ragazzi e ragazze al rapporto reciproco e alla costruzione di un progetto di società che tiene conto della specificità delle persone, li accompagniamo nel loro cammino di crescita, praticando percorsi che rispettino l'unicità e la capacità di ciascuno.
Il rifiuto a generare, non solo in senso biologico ma come fecondità aperta a condividere nell’impegno con gli altri la propria vita, a volte connota questo tempo. L’uomo e la donna troppo spesso non si riconoscono più come dono, e poiché la vita non è più dono diventa “fatica”. È necessario puntare su un’educazione che possa aiutare ancora di più i giovani ad assumersi delle responsabilità aiutandoli a farli sentire già da piccoli parte di una comunità, rendendoli più solidi e solidali, a contrastare una cultura individualista e omologante, a essere sempre più Chiesa, a educare i giovani alla speranza e al loro protagonismo.
Donne e uomini dunque “capaci”: di amore, di futuro, di fede, di creatività, di coraggio, di spiritualità, di testimonianza, di sogno, di sostegno reciproco, di pensiero critico, di relazioni autentiche, di sguardo ampio, di solidarietà, di denuncia, di perdono, di memoria, di scelta, di sacrificio, di educazione, di messa in gioco, di dialogo, di tolleranza, di valorizzazione dei talenti propri e altrui.
E per arrivare a questo serve più che mai l'unione e la sinergia di modelli di adultità e di percorsi significativi per le giovani generazioni, così come ci pare necessario ribadire che un concreto accompagnamento e supporto che non ostacoli le ambizioni, anche quelle più complesse, le potrà rendere possibili gettando il cuore oltre l'ostacolo.