Inutile sperare in cambiamenti epocali che non arrivano mai. Inutile cercare di scaricare all’esterno le responsabilità delle cose che non vanno. Meglio rimboccarsi le maniche e sfruttare gli spazi di miglioramento che nelle scuole italiane non mancano. Come non mancano esperienze di eccellenza che possono fare da traino per quelle che fanno più fatica. Dal suo osservatorio di direttore esecutivo della Banca Mondiale, Piero Cipollone, ex presidente di Invalsi, lancia un messaggio di realistica speranza.
Quali sono secondo lei i problemi più impellenti che ha davanti la scuola italiana?
Il nodo fondamentale è l’enorme differenza nei risultati di apprendimento tra scuola e scuola, anche a parità di caratteristiche della popolazione studentesca. Molti istituti italiani non sfigurano affatto a livello internazionale, il problema è che ce ne sono troppi nella parte bassa della graduatoria. Non è anzitutto un problema sistemico o di normative: a parità di leggi, alcune scuole vanno bene e altre male, questo significa che molto si può fare per il miglioramento complessivo. Se riuscissimo a sfruttare i margini di miglioramento che ci sono, potremmo coniugare l’equità (aiutando i ragazzi più svantaggiati) con l’efficienza, nel senso di ottenere risultati migliori a parità di risorse impiegate. Non sono necessarie rivoluzioni. O meglio, la vera rivoluzione è impegnarsi tutti i giorni per fare meglio.
La leva fondamentale per cambiare sono comunque gli insegnanti, che si lamentano per essere sottopagati e sottostimati. E molti sono avanti con l’età.
Siamo realisti: francamente non riesco a immaginare cambiamenti epocali né sugli stipendi né sulla composizione per età della classe docente. Ci metteremo almeno vent’anni per invertire la rotta, e pesa l’incertezza sul sistema di reclutamento (anche in ragione delle oggettive ristrettezze economiche). In più c’è sempre il rischio del "benaltrismo", il rinvio a "nemici" esterni (la politica, i fondi che mancano, la burocrazia). Dobbiamo aiutare i docenti a recuperare la consapevolezza che molto si può fare nelle condizioni date (che non è poco, come dimostrano tanti casi di eccellenza), restituire la percezione di quanto sia importante il loro lavoro e quanto loro stessi possono fare la differenza. E nel frattempo pensare a come migliorare nel lungo periodo.
Quali sono i punti di forza del modello italiano?
È una scuola dove l’humanitas resta un valore centrale, almeno a livello di aspirazione. È un bene che la nostra scuola tenda a educare le nuove generazioni a valori fondamentali come la tolleranza, il rispetto della persona, l’amore per la conoscenza, la libertà di pensiero. Ma è sbagliato ritenere che questo possa essere perseguito a scapito dell’insegnamento dei fondamenti della conoscenza, come la capacità di leggere un testo e di coglierne la struttura logica. Non si può educare alla tolleranza se anzitutto non si capisce cosa sta scritto in un testo. Ho la sensazione che ci sia stata una sostituzione delle priorità, ci siamo dimenticati che saper leggere e far di conto sono gli strumenti fondamentali per garantire quella continuità nei processi di apprendimento sempre più necessaria in una società a rapida innovazione come la nostra.
Lei ha presieduto per alcuni anni l’Invalsi, che è oggetto di contestazioni da più parti. In che modo un sistema di valutazione può aiutare a migliorare la qualità della scuola?
Qualcuno ritiene che la valutazione sia un’ordalia, un giudizio divino da cui sfuggire. In realtà è un elemento necessario per capire come poter migliorare. Deve stimolare i singoli istituti a capire i punti di debolezza per concentrare lì gli sforzi. I test standardizzati sono uno strumento prezioso perché permettono la comparabilità tra scuole. Nessuna è perfetta in tutte le dimensioni, cosi come nessuna è pessima in tutto. Da presidente dell’Invalsi ho conosciuto esperienze di eccellenza, al Nord come al Sud. Smettiamola con il pianto tutto italiano sulle cose che non vanno. Abbiamo un sistema scolastico che permette ampi margini di azione e di miglioramento, senza aspettare riforme epocali che non arrivano mai. Posso sintetizzare con due parole? "Si può".
Che consigli dà ai dirigenti scolastici per sviluppare il potenziale presente nelle loro scuole?
I dirigenti sono spesso troppo assorbiti dalle emergenze quotidiane, vengono sottoposti a un’infinità di pressioni che mettono in pericolo la capacità di guidare un’organizzazione complessa come la scuola. E così spesso dimenticano di essere leader che devono indicare la strada. Perciò il mio consiglio è di fare in modo di tenersi un po’ di tempo tutti i giorni per pensare alle priorità su cui lavorare, ad obiettivi ambiziosi e insieme realistici e misurabili, e a come conseguirli con una serie di azioni coerenti rispetto allo scopo finale, che rimane l’appprendimento.
Che ruolo possono avere le famiglie e le comunità sociali?
Nessuna scuola può da sola raggiungere l’obiettivo di educare se non è sostenuta dalle famiglie e dalla comunità in cui è inserita. Le famiglie e la comunità hanno il compito di testimoniare ai ragazzi il valore dell’imparare, l’importanza dell’impegno, dell’assunzione di responsabilità. La buona notizia è che questi insegnamenti possono venire da tutte le famiglie, indipendentemente dal reddito e dal livello di istruzione. Su queste basi il lavoro della scuola può generare risultati straordinari.
Come direttore esecutivo della Banca Mondiale, lei ha uno sguardo che va ben al di là del nostro Paese. Ci sono evidenze per poter dire che l’educazione è una leva fondamentale per lo sviluppo?
Per molti anni il legame tra istruzione e sviluppo economico è stato al centro della riflessione degli analisti che studiano la crescita di lungo periodo. Mentre nei modelli teorici l’istruzione era riconosciuta come la chiave della crescita, nei modelli empirici la sua rilevanza era piuttosto scarsa. La ragione di tale incoerenza risiedeva nel fatto che per molto tempo si è misurata l’istruzione con gli anni di scuola frequentati, piuttosto che con le conoscenze e competenze acquisite negli anni di scuola. Recentemente invece le evidenze sul legame tra scolarità e crescita sono divenute più manifeste, in particolare da quando gli analisti hanno abbandonato come criterio per la scolarità il numero di anni di scuola, adottando invece le conoscenze e competenze degli alunni, la cui misura è stata resa disponibile dalla diffusione delle indagini internazionali sugli apprendimenti, prima quella della IEA, poi quelle dell’OCSE. In particolare, un recente studio dell’OCSE porta a concludere che un aumento di 100 punti Pisa (l’organismo internazionale che certifica le competenze degli studenti) "produce" un aumento di due punti del Pil pro capite. Grazie a questa crescente evidenza l’istruzione, intesa come competenza, viene ormai riconosciuta come una delle chiavi dello sviluppo, tant’è che gli Obiettivi del Millennio post 2015 conterranno probabilmente un indicatore della qualità dell’istruzione oltre che i tradizionali indicatori sulla quantità.