Islam. Il dialogo è possibile. Anche in carcere
“Non mi parli oggi. Perché?”. “Perché non lo sapevo…”. “Non sapevi cosa?”. “Che non sei un musulmano, un fratello. Tu-sei-un-cristiano”. La scena si svolge in un carcere italiano: da una parte c’è Leila, una ragazza musulmana che ha attraversato il mare per arrivare in Italia ed è poi finita nei giri sbagliati, che l’hanno condotta dietro le sbarre; dall’altra c’è un monaco dossettiano, fratel Ignazio De Francesco, della Piccola Famiglia dell’Annunziata. Due pianeti lontani anni luce, due personalità agli antipodi, con in più quel “dettaglio” che pesa come un macigno: la fede diversa. Eppure, superato il muro di un’apparente incomunicabilità, siamo all’inizio di una storia vera che può raccontare meglio di tanti monologhi e di tanti discorsi cosa occorre fare per favorire un incontro autentico tra l’Occidente cristiano e l’islam. Il segnale di un percorso comune possibile è tanto più importante in una fase storica come questa, dove i rischi di radicalizzazione tra le nuove generazioni islamiche sono crescenti e fanno proprio del carcere la palestra involontaria in cui nasce e si diffonde l’estremismo: secondo i dati del Dap, sarebbero 11mila i detenuti provenienti dai Paesi di religione islamica, due terzi dei quali praticanti: centinaia di questi vengono considerati dalle autorità ad alto rischio.
Combattere una "buona battaglia" per ridare innanzitutto cittadinanza a giovani altrimenti perduti è dunque il principale merito di “Leila della tempesta”, nello stesso tempo un libro, edizioni Zikkaron, e una rappresentazione teatrale affidata alla regia di Alessandro Berti, in cui affiora di tutto: i sogni di un’adolescente venuta da lontano, le difficoltà dell’inserimento nel nostro Paese, la scoperta di un canale di comunicazione immediato (fratel Ignazio parla benissimo l’arabo) l’emergere di rivendicazioni e rancore (“Perché ci fate pregare nei capannoni, nei garage, negli scantinati? Perché voi potete radunarvi la domenica ma noi no il venerdì?” dice Leila a un certo punto). Tutto è argomento di sfida e di confronto, di provocazione e di ascolto. Fino a quando il monaco chiede alla ragazza di leggere con lui, in arabo, la Costituzione del suo Paese, la Tunisia. È il momento della svolta. “Dobbiamo aiutarci l’un l’altro in uno sforzo di reciproca comprensione – sottolinea fratel Ignazio -. Nel mondo islamico si sta muovendo qualcosa, soprattutto da qualche mese a questa parte. Dobbiamo fare di tutto per raccogliere questa disponibilità”. La cultura può essere il terreno giusto per cominciare.