Coronavirus. «Io, sacerdote e medico: così ho curato e amministrato i Sacramenti»
Don Fabio Stevanazzi
Per molte settimane ha scelto di rispettare il silenzio, «che mi sono imposto da quando ho firmato il contratto con l’ospedale». Ma alla fine, dopo lunghi e difficili giorni di lavoro nella terapia intensiva dell’ospedale di Busto Arsizio (Varese), don Fabio Stevenazzi, il prete dottore, ha molto da raccontare.
A metà marzo ha dimesso per poco (dopo il permesso dell’arcivescovo Mario Delpini) i paramenti sacri in sacrestia, nella parrocchia di Santa Maria Assunta a Gallarate, ed è sceso in prima linea per rispondere all’emergenza Covid-19, tornando a fare il medico, come prima di entrare in seminario. Un’esperienza che prosegue e che ha inciso molto in lui. «Ho scoperto, con stupore, di essere stato prete, facendo il medico, quando in tanti colleghi, anche non credenti, mi hanno preso da parte per farmi confidenze personali, sul senso della vita o sulla fede. Sono state delle vere e proprie "confessioni laiche", che custodisco nel mio cuore con emozione». Non sono mancate le occasioni in cui a don Fabio, i medici si sono rivolti per conoscere il suo parere in decisioni difficili, di natura bioetica.
Davanti agli occhi don Stevenazzi continua ad avere le immagini terribili e le storie dei tantissimi malati, soprattutto nelle prime settimane: «Li ho visti impauriti e sprofondati nella noia di giorni sempre uguali, ritmati solo dagli allarmi delle apparecchiature e dai rumori degli aspiratori. Nel reparto di terapia intensiva non riuscivamo a trasmettere musica perché l’interfono distorce i suoni e perché il soffio dei respiratori soffoca quasi ogni altro rumore. I più giovani e in gamba riuscivano a farsi compagnia con smartphone e tablet, i più anziani al massimo potevano telefonare ogni tanto ai familiari, ma è facile intuire come sia stato penoso per molti di loro. Ogni tanto la vista dell’aggravamento o del decesso del loro compagno di stanza li sconquassava».
Oggi la situazione è un po’ migliorata: «Vedo qualche volto più disteso e sereno, ma anche fra noi medici le domande sono tante e non abbiamo tutte le risposte su come si sta evolvendo la malattia». La fatica fisica è notevole, unita al fatto che, alla fine del turno di lavoro, per don Fabio la vita continua in "clausura stretta", nelle proprie stanze in canonica, senza vedere e incontrare nessuno per non diffondere eventuale contagio. «Celebro l’Eucarestia e prego nel mio salottino, tutto solo come un eremita; nel tempo libero leggo un po’, guardo la tv per liberare la mente, e poi cerco di dormire».
Ogni giorno, don Fabio prova a tenere insieme le due vocazioni di servizio all’uomo, che ha fatto nella sua vita: «Il più delle volte i pazienti non sanno neppure che sono un prete e non possono certo distinguere me dagli altri operatori, avvolti come siamo tutti dallo scafandro. Ho pregato una volta con un degente moribondo che poi ho assolto non so se abbia avuto consapevolezza di me come sacerdote: non poteva sentirmi, assordato dal casco Cpap. Ho anche amministrato il sacramento dell’Unzione, a persone sedate o agonizzanti».
I giorni più bui e strazianti, paradossalmente, sono stati quelli della Settimana Santa, passati tutti in corsia, compreso il giorno della Risurrezione. «La mattina di Pasqua – ha detto – sono passato davanti agli oblò delle camere di degenza con la stola bianca e ho benedetto tutti, distribuendo un’immaginetta con il risorto; penso che sia stato di conforto a molti».
Oggi don Fabio Stevenazzi continua il suo lavoro in ospedale anche se è tornato a occuparsi di qualche aspetto della vita della comunità pastorale di San Cristoforo a Gallarate e nel raccontare la sua esperienza anche agli amici del centro culturale “Tommaso Moro”, sottolinea: «Sono consapevole sempre più che contempliamo Cristo sotto le spoglie del malato sofferente che arranca lungo la corsia, ancora troppo simile a un ripido Calvario».
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