Brunori Sas. «Io, papà e le canzoni contro la paura. Il dolore rende davvero adulti»
Un amico passionista e una sete di risposte che sarebbe piaciuta a don Giussani. Brunori Sas ha un’anima blues che stempera con l’ironia; ma del suo mentore ideale, Groucho Marx, non ha il sarcastico pessimismo. Canta il dolore, la nostalgia e la solitudine, certo, tuttavia è come se bussasse alla porta di chi l’ascolta per farsi aprire, e per capire come uscirne insieme. Domani si confronterà alla Fiera di Rimini con il religioso Massimo Granieri e con lo scrittore Franco Nembrini. L’aspettativa, come ci racconta iniziando quest’intervista, è di «essere sorpreso» dal Meeting.
Domani mattina parlerà di 'canzoni contro la paura'. Una volta, il cantautore era un intellettuale politico. Oggi siete diventati psicoterapeuti di massa?
Quella fase è finita e oggi ciascuno canta a modo suo. Io ho iniziato con un’attitudine blues, perché il canto lenisce le mie ferite interne e risponde alla necessità di comunicare ciò che non riesco a dire. Sa, io sono calabrese e noi calabresi non siamo avvezzi ad esternare; i miei, inoltre, mi hanno educato al pudore. Ma ciascuno ha passioni, interessi, dubbi e domande nell’anima alle quali deve rispondere se vuole dare un senso all’esistenza e le mie canzoni toccano proprio quei tasti.
Perché non affronta temi politici?
In realtà, ho scritto più di una canzone con riferimenti politici o sociali, ma dobbiamo essere onesti: in questo momento storico interessa davvero a pochi. Sto rileggendo Pasolini per trarre degli spunti, ma la domanda non è quella degli anni Settanta e non mi riferisco tanto ai produttori quanto a chi ci ascolta. Difficilmente cerca la politica nelle canzoni, soprattutto nell’accezione di un certo tipo di canzone 'impegnata'. All’epoca la politica accendeva i cuori dei ragazzi tanto quanto le vicende sentimentali. Oggi non è più così.
Domani, Massimo Granieri dirà che 'Capita così' lo ha aiutato, nel momento in cui ha perso il padre, e che anche le canzoni possono salvarci dal dolore. E’ d’accordo?
Se le canzoni nascono da sentimenti veri di chi le scrive intercettano sentimenti veri in chi le ascolta. Nelle mie ritorna spesso il tema del rapporto con il padre, in modo implicito o esplicito, ed è ciò che ha colpito il cuore di Massimo in quel momento. In 'Cip!' accarezzo il tema della morte e cerco di accettarlo, pur con l’umana difficoltà che questa accettazione comporta. Ma non è un passaggio intellettuale o solo razionale, discende dal rapporto con mio padre: la sua morte mi ha imposto di rivedere le priorità della vita e l’ho scritto in 'Capita così', come in altri testi, per ricordare a me stesso ciò che conta nella vita. Canzoni come promemoria.
Per favore, descriva il dolore da cui è nata quella canzone.
Il 24 gennaio del 2007 sono diventato adulto. Avevo trent’anni. Quel giorno presi coscienza che l’immortalità di mio padre, un concetto solidissimo per tutta l’infanzia, non c’era più. Ci fu il dolore emotivo, l’adrenalina degli impegni – dovetti assumere la guida dell’impresa di costruzioni di babbo, la Brunori Sas appunto – e dimostrarmi all’altezza. Il dolore vero non è mai come il dolore immaginato, ha un sapore diverso: prima è dolore di carne e poi diventa come una spinta adrenalinica, uno choc addizionale.
Cosa cambiò per l’artista?
Quando affrontai quel lutto ero un piccolo musicista con scarsi risultati. Oggi, quando una canzone ha successo, dico tra me e me 'visto papà? ce l’ho fatta'.
Soffrire non piace a nessuno. A cosa serve il dolore?
Scrivo molto del dolore perchè sono uno che lo rifugge ma se parliamo di un dolore importante come la perdita di una persona cara, e non di certe prigioni mentali che ci autoinfliggiamo quando il dolore nasce da situazioni di squilibrio psicologico, allora credo che possa essere un momento di crescita. Io, ripeto, scapperei, guarderei dall’altra parte di fronte a una sofferenza, e credo di non essere il solo, ma quando non ho potuto evadere sono stato cambiato in meglio. Quelle situazioni ti fanno rendere conto che non vivi più in un mondo immaginario in cui tutto pensi che sia per sempre.
La morte può avere un valore pedagogico?
La morte per me ha un valore vitale nell’assaporare il tempo che rimane. In tal senso la canto.
Lei ha dedicato una canzone a Kurt Cobain. Non pensa che sia pericoloso sdoganare il suicidio?
Non giudico quel gesto e quella canzone non nacque per sdoganare nulla, ma per celebrare un personaggio artistico importante per la mia generazione e far emergere uno choc che mi ha accomunato a tanti adolescenti dei primi anni Novanta. Quel brano esprime empatia per chi cerca disperatamente di comunicare con il mondo e il mondo non sembra ascoltarlo o capirlo. Non è una canzone sul suicidio, ma sulla solitudine.
Le capita mai di sentirsi solo?
La felicità consiste nell’equilibrio, anche nell’accettare e nel gestire il successo. Chi sale su un palcoscenico indulge alla vanità e deve tenere a bada le proprie emozioni, perché può isolarsi, costruire un castello e rinchiudersi nella torre più alta, volere sempre di più e scoprirsi povero di tutto, cercare amore e non trovarlo. Perché facciamo di tutto per amare e sentirci amati, per non essere soli.
Una delle sue canzoni dice che innamoramento e amore non sono la stessa cosa. Ma cos’è l’amore? Mia figlia di dieci mesi. Fiammetta è il mio grande amore, sì, lo è. Per la prima volta posso dire che quest’amore sarà per sempre e spaventarmi davvero all’idea di perderlo, io che ho sempre avuto paura del 'per sempre' e l’ho inteso come fosse un 'mai'.
Dunque adesso padre è lei... Non l’ho ancora metabolizzato del tutto, ma lo so. Aspetto di fare il saltello da figlio a padre; talvolta mi sento un fratellone di mia figlia, ma quando la tengo in braccio intendo perché i miei avevano paura di tutto. Si figuri che mia madre mi considera ancora un cucciolo.
Un’altra canzone dice: 'A Guardia Piemontese / Mentre la gente si faceva le canne / E io frequentavo le chiese'. Perché ha smesso di andare a Messa? Non trovavo risposte e non avvertivo la volontà di farsi delle domande. Non dico che nella Chiesa sia sempre così, forse dipese dal contesto in cui mi trovavo. La mia produzione artistica, certo, risentirà sempre della cultura cattolica in cui sono nato e quando c’è una processione mi commuovo, ma sono in ricerca, senza peraltro avvertire la necessità di 'iscrivermi' a una chiesa o a una scuola filosofica.
Ma paura che qualcuno condizioni le sue scelte? Ho paura del potere della rete, che è cambiata da quando la usavamo per comunicare. Io ho fatto il primo disco con etichetta svizzera grazie a internet, non ho motivo di odiare il web, ma oggi è controllato dal mercato.
Vieterà Internet a sua figlia? No, cercherò di accompagnare mia figlia nel suo percorso di crescita perché non resti vittima di un sistema che propone ai ragazzini modelli 'schiaccianti'. La affiancherò, finché sarà giusto farlo.