Ci sono luoghi in cui la vita e la morte si sfiorano o si intrecciano. Ci sono momenti che imprimono un’accelerata improvvisa al destino delle persone. Uno di questi luoghi è l’ospedale San Salvatore qui a L’Aquila, il momento è stato alle 3 e 32 di domenica notte. Quando Fadba, operaio albanese, ha visto la morte in faccia ma l’ha schivata. Quando nonna Landa, paralizzata, è uscita indenne da un crollo ma ha rischiato di morire disidratata dopo due notti in automobile. Quando il dottor Antonini, cardiologo di questo ospedale duramente colpito dal sisma, ha perso la moglie e il figlio e ora torna al lavoro per non impazzire di dolore. Luca Antonini si aggira tra le tende dell’ospedale da campo allestito nei parcheggi del San Salvatore, al momento del tutto inagibile. Sta cercando di uscire dal pozzo di dolore in cui è stato scaraventato domenica notte. «È il primo giorno, tornerò al lavoro subito altrimenti impazzisco, il dolore è troppo», dice. Lo fermano continuamente per salutarlo, abbracciarlo. È un uomo distinto di 46 anni, che fa sforzi incredibili per non crollare. Seduto nella tenda che fa da mensa, riordina i ricordi della notte che ha cambiato la sua vita: «Sabato sera c’era stata una prima scossa alle 11 e 45 – ci dice – e avevo telefonato a mia moglie Giuliana, da cui sono separato, perché aveva deciso di andare a dormire con nostro figlio Stefano, 9 anni, a casa dei suoi genitori. Io le avevo detto che secondo me era meglio se restavano a casa nostra: la fece mio nonno, che era un bravo costrutto- re. Mi sarei sentito più sicuro. Non lo so, mi ha detto, sono soli, forse vado da loro». Quando la terra trema, il dottor Antonini si precipita, da casa sua in via Verdi, a via Fortebraccio, dove era la loro casa di sposi. La casa solida fatta dal nonno è lì in piedi, ma vuota. «Allora sono corso a via D’Annunzio, dai suoceri, verso Porta Napoli. Una palazzina di cemento armato degli anni ’60. Non c’era più, un ammasso di macerie». Da sotto si sentono urla, lamenti. Non quelli della moglie e del figlio. I soccorsi arrivano dopo alcune ore: «Hanno cominciato a scavare alle 7 e 30. Hanno tirato fuori due ragazze vive, poi alle 14 mia suocera. Giuliana e Stefano no. Sono morti sul colpo». Luca Antonini guarda in alto e deglutisce. «Non sono un esperto di costruzioni – riprende – ma io di cemento ne ho visto ben poco lì. E i tondini di ferro erano lisci, non zigrinati. Lucrare sul cemento armato signfica mettere a repentaglio la vita delle persone. Come è inconcepibile che sia inagibile un ospedale costruito 20 anni fa». Il padre e il marito si ferma qui. E lascia la parola al dottor Antonini, cardiologo: «Nonostante tutto sono lucido. E le dico che questo ospedale da campo non è gestibile. A parte il pronto soccorso, non serve a niente. L’ha vista la tac mobile la fuori? Se mi conferma che un paziente ha un’emorragia cerebrale, è inutile, tanto qui non posso fargli niente e devo trasferirlo altrove. Qui l’ospedale non riprenderà a funzionare per molto tempo. L’Aquila non può farne a meno. Con 10 milioni di euro si possono comprare dieci unità mobili, sale chirurgiche autotrasportate. Così potremo lavorare. Non ci servono promesse e dichiarazioni, ma strumenti. Qui i politici lascino le decisioni ai tecnici, a chi lavora in sanità».
Fadba, l'operaio albanese: «Un metro e sarei stato sepolto». Dalla tenda del pronto soccorso intanto esce in carrozzella Fadba, il piede destro fasciato. È arrivato in Italia dall’Albania per migliorare la sua vita ma c’è mancato poco che la perdesse. Biondo, magro, 21 anni, viveva a Poggio Roio. Ora a ripensare a come è andata gli viene da sorridere: «Non so come mi sono fatto male. Devo essere stato quando sono saltato giù dal letto, su una pietra o un vetro. Stavo per entrare in soggiorno e da lì uscire, quando è crollato tutto. Se fossi stato un metro più avanti sarei morto. Grazie a Dio sono qui».
Landa, viva per caso. Anche la signora Landa Cirilli è viva per caso. Ha l’ossigeno e poco fiato per parlare, con i suoi 87 anni e il lato sinistro del corpo paralizzato per un ictus. La notte del sisma casa sua, a Roio Colle, resiste per miracolo alla spallata mentre attorno crolla tutto. Veneta, la sua badante bulgara, quando capisce che sono salvi scappa a chiamare aiuto. I parenti salgono sulle macerie e la portano fuori su di un lenzuolo. Le scosse di assestamento poco dopo faranno crollare tutto. Nonna Landa passa due notti in macchina, assistita per quanto possibile dai nipoti. Ma quando il medico la visita, decide per il ricovero: «Si stava disidratando, poi lì non potevamo lavarla», racconta la nipote Maddalena, distrutta dalla tensione. Qui all’ospedale da campo del San Salvatore non sono in grado di curarla. C’è posto all’ospedale di Tocco Da Casauria, tra Sulmona e Chieti. L’eliambulanza è pronta: «Tranquilla zia, che il viaggio è breve, noi arriviamo subito ». Landa alza una mano e prova a sorridere.