Collocamento. «Io, disabile, assunta e poi esclusa dal lavoro»
Una discriminazione sul lavoro o solo una prova finita male? Una pratica elusiva dell’obbligo di assunzione di quote di disabili oppure un’ordinaria vicenda di mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro? Quale che sia la 'morale' finale della storia, val la pena di raccontare la disavventura di Erika De Padova, non fosse altro perché emblematica delle mille difficoltà, testimoniate dai numeri, vissute da chi ha uno 'svantaggio' nel trovare un’occupazione (si vedano le tabelle a fianco).
E questo nonostante la stessa disabilità dia diritto a una corsia preferenziale nelle assunzioni, a cui sono obbligate le imprese tra 15 e 35 dipendenti per 1 persona; tra i 36 e i 50 dipendenti per 2 persone e per una quota del 7% del personale complessivo le aziende che superano i 50 dipendenti. La vicenda inizia a marzo di quest’anno, quando Erika De Padova, 38 anni e un’invalidità del 46% viene assunta dall’ICF srl di Palazzo Pignano, in provincia di Crema, un’azienda chimica con 54 dipendenti, con la qualifica di impiegata dell’ufficio acquisti (come categoria protetta), con un contratto lavorativo a tempo determinato di sette mesi.
«Finalmente una buona notizia, visto che ero disoccupata da novembre del 2016, dopo la fine di altri contratti a termine – racconta Erika –. Al colloquio con il direttore di stabilimento e il suo braccio destro, ho premesso subito che le uniche esperienze legate all’acquisto di prodotti si limitavano ad inserire gli ordini nel gestionale Navision, nelle aziende in cui avevo lavorato precedentemente. Il direttore dello stabilimento ha puntualizzato che questo non era un problema perché ero la persona che stavano cercando, avevo voglia di fare ed ero curiosa.
La formazione l’avrebbero assicurata loro, anzi mi era anche stato puntualizzato di non lamentarmi se inizialmente avrei dovuto sostenere lavori di segreteria, come scannerizzare documenti, ricevere le chiamate, archiviare documenti, poiché non avendo esperienza non potevo gestire un ufficio. Il loro obiettivo, mi spiegarono, era che collaborassi con il responsabile dell’ufficio acquisti, in modo che se fosse mancato per ferie o malattia ci fosse già la persona giusta per mandare avanti l’ufficio. Inoltre, essendo io laureata in lingue e parlando sia inglese sia tedesco, avrei potuto gestire fornitori e clientela straniera».
Iniziato il periodo di prova e avendo ricevuto solo una prima infarinatura riguardo alle attività da svolgere, per Erika sono iniziati i problemi. Lavorare le era di fatto impedito, racconta, perché esclusa dall’accesso al server aziendale per la visione dei documenti. «Per capirci: avevo una casella di posta di Outlook, che a me non serviva a nulla, non ricevevo comunicazioni aziendali e nemmeno dei clienti – spiega ancora Erika –. Non avevo la firma digitale con il mio nome e cognome, con la mia mansione, il logo e dati dell’azienda. Le uniche e-mail ricevute sono state tre o quattro scritte in italiano, in cui il mio collega che era il responsabile acquisti, mi chiedeva di tradurle in lingua inglese.
Poi lui stesso a suo nome provvedeva a rispondere al cliente. Inoltre quando inserivo nel gestionale gli ordini di acquisto oppure modificavo le date delle conferme d’ordine non compariva il mio nome come utente ma quello del mio collega. Quando arrivavano i corrieri con i pacchetti, io non potevo firmare, ma dovevo cercare qualcuno che firmasse per me e così via fino all’esclusione da qualsiasi riunione».
Dopo appena due settimane, l’epilogo. «Il direttore di stabilimento mi ha chiamato in ufficio comunicandomi che, avendo fatto un’indagine tra colleghi, tutti concordavano nel dire che mi mancavano le basi del lavoro, per cui sarebbe stato costretto a licenziarmi – racconta la donna –. Io non ne ho capito la ragione, poiché l’unica persona con cui lavoravo era il responsabile acquisti. Ho ricordato ciò che avevano detto riguardo alla formazione, ma il direttore ha risposto che l’azienda non poteva permettersi di formarmi perché hanno degli standard alti.
Ho capito così che era la solita storia, capitata in altre aziende dal 2014 ad oggi, in cui mi era stato insegnato poco o niente e, senza nemmeno farmi finire il periodo di prova, mi facevano firmare una lettera con scritto che 'non avevo superato la prova' » e tanti saluti. E così è puntualmente avvenuto a maggio. Nemmeno rivolgersi al collocamento prima e ai sindacati poi ha cambiato le cose, perché nel periodo di prova il datore di lavoro può legittimamente recedere dal contratto.
Secondo la signora De Padova «nel nostro Paese vige ancora un pregiudizio negativo sulle persone con disabilità, per cui le aziende obbligate alle assunzioni le tengono per poco e poi le lasciano a casa con la scusa che non hanno superato la prova e così ricominciano a cercare prendendo tempo per non pagare la multa». Diversa, però, la versione dell’azienda. I dirigenti preferiscono non comparire e non replicare direttamente al racconto della lavoratrice ma «ribadiscono la correttezza del loro comportamento sia nei suoi confronti sia riguardo al rispetto delle norme sul collocamento obbligatorio dei disabili che è stato sempre ottemperato e lo è anche oggi».
Daita (Cgil): le aziende eludono ancora gli obblighi
«Difficile stabilire se, ai danni della signora De Padova, ci sia stata effettivamente una discriminazione: il recesso nel periodo di prova è legittimo e provare un eventuale comportamento scorretto in tribunale sarebbe tutt’altro che facile e in ogni caso non darebbe luogo a un reintegro». Nina Daita, Responsabile nazionale delle politiche per le disabilità della Cgil, spiega però come, al di là del caso specifico, non sia infrequente purtroppo il tentativo delle imprese se non di evadere, quantomeno di eludere il collocamento obbligatorio delle persone con disabilità, «anche sfruttando la legge stessa a proprio vantaggio e a spese dei lavoratori».
«Il Jobs Act, con il decreto 151/2015, ha sicuramente peggiorato le cose, soprattutto nei confronti delle persone con disabilità – spiega ancora Daita –. La Cgil si è schierata fortemente contro questi provvedimenti, ribadendo i diritti dei lavoratori e dei più deboli, ma senza successo. La legge 68/99, "Norme per il diritto al lavoro dei disabili", è sempre stata un’ottima regolamentazione, la migliore in Europa, ma negli anni è stata lentamente svuotata. Tra i diversi aspetti peggiorativi del Jobs act, c’è l’introduzione della chiamata nominativa generalizzata, che ha cancellato completamente la chiamata numerica, la quale assicurava una collocazione ai disabili più gravi». Secondo la sindacalista, «ogni datore di lavoro oggi può liberamente scegliersi il lavoratore con disabilità da assumere, senza alcun controllo da parte dei centri per l’impiego, rendendo così arbitrario il collocamento delle persone con disabilità e penalizzando quelle con gravi deficit». Per contro, secondo i sostenitori del Jobs act, questo permette invece un migliore incontro tra domanda e offerta di lavoro, garantendo all’impresa la possibilità di assumere persone con profili maggiormente aderenti alle esigenze dell’azienda e quindi più facilmente integrabili e valorizzabili all’interno delle imprese stesse.
Solo l'1% di chi è iscritto al collocamento viene assunto
Al di là dei singoli casi e delle valutazioni sulle riforme, ciò che resta incontrovertibile, purtroppo, è la difficoltà all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Come dimostrano i dati delle tabelle che pubblichiamo qui a fianco (riferite al 2013, anno dell’ultimo monitoraggio Isfol) e che si riassumono in due cifre: a fronte di 676mila iscritti al collocamento obbligatorio, solo 18mila hanno trovato lavoro in un anno, di cui appena 6mila a tempo indeterminato. Si tratta di meno dell’1% di coloro che sono disponibili a lavorare e questo nonostante, come mostrano sempre le tabelle qui sopra, siano diverse decine di migliaia i posti "vacanti" delle quote riservate ai disabili sia nelle imprese private sia in quelle pubbliche.